di Mattia Bragadini
Racconto classificatosi al primo posto nella categoria narrativa al Premio Stellina 2016 di Viareggio.
Fissava il suo iPad, al riparo dagli sguardi attenti delle hostess del volo El-Al da Tel Aviv a Londra Heathrow, ancora fermo sulla pista in attesa dell’autorizzazione al decollo. Il tablet era aperto sulla home page del sito di Ha’aretz in lingua ebraica, non capiva una parola ma continuava a guardarlo con gli occhi spenti e vuoti; fissava quei segni per lui senza alcun significato come se nascondessero un messaggio cifrato che dovesse decodificare, come se fosse il protagonista di un racconto di Poe. Cercava un senso, ma un senso non c’era. Decise di scuotersi, di pensare ad altro, di distrarsi
Con in testa Londra, Stefano allora guardò fuori dall’oblò e ripensò alle vacanze studio in Inghilterra da adolescente, al brivido delle partenze da solo, all’avventura in un Paese straniero, a quei viaggi in auto che sembravano interminabili verso Linate o Malpensa, al fascino dell’aeroporto con migliaia di persone di ogni tipo che attraversavano di fretta aree dai nomi strani, segnalate da giganteschi tabelloni disseminati tra grandi poster pubblicitari come se ne vedevano pochi in giro. Si rivide a quindici anni, quando la sola parola Heathrow gli bastava per riempirsi la bocca e farsi grande con gli amici, di rientro al massimo da Marinella di Sarzana o da Bellaria.
E poi l’aereo, quel sentirsi grandi nonostante la paura che lo attanagliava, mai ammessa a nessuno, i lunghi preparativi, i biglietti prenotati con anticipo di mesi, i calcoli per essere puntuali al check-in, con il risultato di arrivare all’imbarco sempre due ore prima del necessario e dover ingannare l’attesa leggendo e ascoltando musica. Il walkman! Sorrise per un attimo. Ora che prendeva l’aereo con un preavviso massimo di un giorno o due, con la stessa agitazione con cui scendeva al bar sotto casa per la sua colazione standard, le rare volte che poteva fare colazione in Italia, quei momenti gli sembravano incredibilmente lontani, e non poté fare a meno di ripensarli con infinita nostalgia. Poi gli tornarono alla mente i viaggi in automobile quando era piccolo, i lunghi trasferimenti verso la montagna, il panino con la cotoletta all’ultimo autogrill prima di arrampicarsi su per la valle. L’epoca in cui conosceva l’autostrada solo una volta all’anno, in agosto, con tutta la sua famiglia.
Lui una famiglia adesso non l’aveva più, non l’aveva mai più avuta da quando il destino si era portato via prima mamma e poi papà, nel giro di sei mesi. Fuori uno. Fuori due. Adesso la sua compagna era un ventiquattrore con dentro un notebook, una trousse da toilette, una camicia e un cambio per la notte, mentre suo figlio era un trolley con giusto il necessario per qualche giorno in più, che portava con sé solo quando era strettamente indispensabile. Esibiva il passaporto con la frequenza con cui i forzati della metropolitana esibiscono la tessera dell’abbonamento, ed ogni sera rientrava in un’anonima camera d’albergo, diversa dalla precedente eppure identica. Mosca, Dubai, Londra, New York. Ogni mattina svegliarsi e non sapere dove sei.
Quella mattina, invece, si era svegliato ben consapevole di dove si trovasse. Merito della sera precedente, che gli aveva ridato un po’ di speranza, un po’ di fiducia nel futuro, pur sapendo che si trattava di un futuro dall’elevato coefficiente di difficoltà, ma per il quale, santiddio, si sentiva finalmente pronto. Quanto meno si sentiva pronto per mettersi alla prova.
La sera prima, di ritorno dalla visita a un cliente nel nord del Paese, aveva deciso di mangiare un boccone veloce al ristorante dell’albergo per poi godersi, per una volta, un momento di svago, immergendosi nella vita notturna di Tel Aviv, di cui gli avevano parlato benissimo. Si era fatto quindi consigliare un posto animato e ben frequentato ma soprattutto non troppo lontano ed era partito all’avventura. La serata era torrida come al solito, ciononostante invece che percorrere i 400 metri in linea retta di Ha-Yakron Street che lo separavano dal Potion Bar, Stefano aveva pensato di godersi l’ultimo scorcio di lungomare in notturna. Così aveva allungato un po’ la strada, dirigendosi verso Retsif Herbert Samuel Street che aveva costeggiato lasciandosi accarezzare dalla lievissima brezza che si infilava dolcemente tra le palme, osservando la spiaggia deserta e il Mediterraneo scuro che si riversava placidamente sulla sabbia, con un debole sciabordio di onde appena percettibile.
In pochi minuti aveva raggiunto il locale ed entrando era stato accolto dalla consueta stilettata di aria condizionata che lo aveva quasi tramortito. Durante la breve camminata al caldo della sera aveva già cominciato a sudare, così appena entrato si era subito coperto infilando il maglione che portava in vita, per evitare di beccarsi un accidente. Il locale era affollato, dalle casse arrivava buona musica a un volume accettabile e l’atmosfera che si respirava gli era piaciuta subito. Stefano aveva riconosciuto le note di Special Needs dei Placebo, «i miei bisogni speciali – aveva commentato tra sé e sé – bisogni molto ordinari, piuttosto. Tra cui qualcosa di fresco da bere, subito.»
Allora si era seduto da solo al bancone, su uno sgabello alto, aveva ordinato un vodka tonic, pagato con la carta di credito e iniziato a guardarsi intorno osservando la gente seduta ai tavoli. Aveva visto ragazzi e ragazze di ogni età, alcuni molto giovani, immaginava fossero soprattutto studenti universitari trattandosi di un giovedì sera, ed era rimasto colpito dalla bellezza delle donne, dai tratti e dai lineamenti totalmente differenti l’una dall’altra: dal classico tipo mediorientale con la pelle ambrata e con gli occhi e i capelli scuri, fino a belle ragazze di inequivocabile origine slava, figlie della diaspora, sicuramente ritornate in Israele durante l’epoca di Brežnev negli anni settanta, aveva pensato.
Sul lato opposto del bancone aveva individuato una ragazza particolarmente attraente, lei sì corrispondente allo stereotipo che si era costruito: aveva lunghi capelli neri che portava sciolti, labbra piene sempre pronte ad allargarsi in un sorriso mentre chiacchierava con le due amiche sedute accanto a lei, occhi profondi che avevano incrociato i suoi un paio di volte, e a Stefano era parso che in quei momenti lei gli accennasse un sorriso. Si era accorto allora che la stava fissando con troppa insistenza da almeno un paio di minuti ed aveva distolto lo sguardo, imbarazzato. Durante quella prolungata osservazione, aveva deciso che non doveva avere più di trent’anni: era sicuramente più grande delle giovani studentesse che riempivano il bar, ma non di tanto; ed erano più che altro i dettagli, come la preziosa borsetta di pelle che portava a tracolla e la semplice camicetta bianca sbottonata fino al punto giusto con sapiente malizia, a farne una donna più che una ragazzina. Era poi tornato ad osservarla proprio nel momento in cui lei finiva il suo cosmo e si era ritrovato ad agire prima ancora di pensare: aveva tracannato in un sorso quello che restava del suo vodka tonic e si era rivolto in inglese al barman: «Un altro vodka tonic e un cosmopolitan, per favore», poi trovando uno sconosciuto coraggio nell’Absolut si era avviato verso di lei, stupendosi della sua stessa intraprendenza.
«Non bisognerebbe mai lasciare una ragazza senza il suo cosmopolitan» le avevo detto porgendole il cocktail e confidando che capisse l’inglese.
«Hai ragione – gli aveva sorriso – ma da queste parti non ci sono più i gentiluomini di una volta. Tu infatti devi essere straniero.»
«Italiano.»
«Wow! Qual è il tuo nome, italiano?»
«Stefano.»
«Shahar» gli aveva risposto allungando una mano.
«È un nome splendido.»
Shahar era scoppiata a ridere. «Stavi andando bene, Stefano. Questa potevi risparmiartela.»
Lui ci aveva riso sopra a sua volta: «Hai ragione, era terribile. Dimenticala e ripartiamo da capo.»
«Ok! Cosa fai a Tel Aviv, Stefano?»
«Lavoro. Ma domani già riparto. E tu?»
«Anch’io ci lavoro – aveva sorriso – ma ci abito pure. E questa sera è serata tra donne.»
Shahar aveva sottolineato le ultime parole indicando con un gesto le sue due amiche, che nel frattempo si erano avvicinate e avevano teso le mani in direzione di Stefano per presentarsi. Si chiamavano Aliyah e Shoshannah, e dopo brevi convenevoli si erano di nuovo leggermente defilate e si stavano scambiando risatine e commenti in una lingua incomprensibile per Stefano. Shahar sembrava a suo agio, da buon commerciale Stefano studiava il linguaggio del suo corpo e gli sembrava che denotasse apertura nei suoi confronti, e così cominciava a pensare di piacerle; d’altra parte era un italiano atipico, con i suoi occhi chiari e i capelli castani che sfioravano il biondo e si rendeva conto che probabilmente anche lui stava ribaltando qualche stereotipo di Shahar. Con la coda dell’occhio, intanto, aveva visto le altre due ragazze allontanarsi sempre di più, fino a ritrovarsi a due sgabelli di distanza da loro, intente a loro volta a chiacchierare con due ragazzi appena conosciuti.
«E che tipo di lavoro ti porta in Israele?» gli aveva chiesto Shahar ritornando al punto dove si trovavano prima della breve interruzione, e richiamando lo sguardo di Stefano su di sé.
«Mobili. Lavoro in un’azienda di arredamento: salotti, camere da letto, armadi. Prodotti di qualità, per un pubblico di nicchia. Il che significa andare a cercare i clienti dove ci sono i soldi. Russia, Stati Uniti, Golfo Persico, Far East, le capitali europee…»
«E Israele» lo aveva interrotto Shahar.
«Già. Ma qua ci torno sempre volentieri.»
«Questa fa il paio con “è un nome splendido”…»
«No no! Lo penso veramente!»
«Ah quindi non pensi veramente che ho un nome splendido.»
«Ma certo che lo penso, ma non è… sì, insomma…»
Shahar aveva iniziato a ridere gioiosamente dell’imbarazzo in cui aveva messo Stefano e poi aveva deciso di salvarlo.
«Ehi ehi, tranquillo. Stavo scherzando – gli aveva detto con tenerezza – in realtà sono molto felice quando qualcuno mi dice che viene volentieri nel mio Paese. Io lo amo profondamente anche se comprendo le perplessità di tanti, d’altra parte l’immagine che normalmente viene data di Israele non è delle migliori. E spesso è un po’ distorta rispetto alla realtà.»
Stefano si era limitato ad annuire. Si stavano dirigendo su un campo minato, non solo metaforicamente, e non era la piega che intendeva dare alla conversazione. Aveva quindi deciso di cambiare argomento e cercare di conoscere meglio quella ragazza.
«Ma tu invece non mi hai ancora detto cosa fai nella vita.»
«Io sono un medico, lavoro qui vicino al Sourasky Medical Center. Ho appena finito il turno e fino a domani sera non se ne parla.»
«Ah! L’ospedale Ichilov!»
«Vedo che ormai sei ben integrato a Tel Aviv» aveva risposto Shahar con un sorriso ammirato.
«No, in realtà è la prima volta che vengo a Tel Aviv. Ma ormai sono già diversi anni che vengo in Israele, soprattutto ad Haifa, e parlando con i miei clienti un po’ di cultura locale l’ho imparata. E tu di che cosa ti occupi all’Ichilov?»
«Sono chirurgo pediatrico.»
«Wow!»
«Già, e come puoi immaginare da queste parti il lavoro non manca», il sorriso di Shahar si era fatto amaro.
«Immagino di sì. Sai, ho notato che la società israeliana è piuttosto, come posso dire… patriarcale. Non pensavo ci fossero molte donne medico.»
«Questo è vero per le parti più ortodosse della società, noi giovani siamo invece molto più occidentali, sia come costumi sia come valori. Certo, non ti posso nascondere che qualche padre tradizionalista quando scopre che sarò io a operare suo figlio… fanno certe facce! E comunque sì, le donne medico qui in Israele sono molte: oltre il 40 per cento, non siamo ancora alla parità ma ci stiamo lavorando.» E questa volta aveva riso di gusto e gli occhi scuri avevano scintillato sotto le luci stroboscopiche del locale. Stefano si era istintivamente avvicinato a lei, ad accorciare le distanze, invadendo deliberatamente il suo spazio: la musica non era troppo alta, non c’era ragione di avvicinare la bocca al suo orecchio.
«Devi averne viste parecchie nel tuo lavoro.»
«Sì, ed ogni volta è una maledetta stretta al cuore. Riusciamo a salvare centinaia di piccole vite ma alla fine della giornata le soddisfazioni non ce le ricordiamo neanche; quello che ti resta dentro è sempre e soltanto il senso di sconfitta che ti travolge quando non ce la facciamo. E pensare che ci sarebbe veramente di che essere orgogliosi di quello che facciamo: qua non arrivano solo piccoli israeliani, ma spesso dalla arrivano bambini anche dalla Cisgiordania, casi che i loro ospedali non riescono a curare, a volte addirittura da Gaza. Solo nell’agosto del 2013 abbiamo accolto, curato e salvato decine di piccoli siriani durante la guerra civile e da allora non abbiamo più smesso; quando si tratta di bambini che rischiano la morte non ci sono etnie e religioni che tengano.»
«Questo vi fa onore.»
«No, è solo il nostro dovere. Siamo medici. Io sono un medico, molto prima di essere israeliana ed ebrea.»
Stefano aveva lasciato le ultime parole di Shahar galleggiare nell’aria, come a volersele fissare bene nella mente. Poi aveva sollevato la schiena riallontanandosi da lei, quasi in segno di rispetto. Infine aveva ritenuto che fosse il caso di alleggerire nuovamente la conversazione, che nonostante i suoi sforzi continuava a scivolare sul terreno della guerra, della morte, dell’orrore. Non era la serata che aveva in mente. Ad aiutarlo ad uscire dall’impasse erano ricomparse Aliyah e Shoshannah, alle quali le cose con i due giovanotti stavano evidentemente andando bene. Le ragazze si erano avvicinate a Shahar confabulando qualcosa con lei, e dopo qualche istante se ne erano andate salutando Stefano con la mano, e lui aveva capito dai loro gesti che si erano accordate per rivedersi più tardi. Erano così tornati a chiacchierare da soli, dopo aver ordinato altri due drink.
«E tu ce l’hai un fidanzato, Shahar?» Ancora una volta la bocca era stata più veloce del cervello, “basta vodka!” aveva pensato, ma non aveva fatto in tempo a pentirsene perché la ragazza non si era affatto indispettita della domanda. Gli aveva anzi risposto con un sorriso: «Ce l’avevo.» Stefano aveva interpretato quel sorriso, privo di qualunque connotazione amara o nostalgica, come un’autorizzazione a proseguire.
«E poi cosa è successo?»
«Quello che succede in tutte le coppie, più o meno. A Tel Aviv come a… di dove sei tu? Dove vivi in Italia?»
«Le poche volte che mi trovo in Italia vivo a Bologna.»
«Ecco, a Tel Aviv come a Bologna. Due si conoscono, si piacciono, escono, finiscono a letto. Dopo la quinta volta pensano che sia una cosa seria, magari lo è, magari lo è solo per lui, magari lo è solo per lei, magari non è una cosa seria. Vanno avanti finché la passione finisce e poi quando dovrebbe subentrare qualcos’altro invece non subentra proprio nulla. È stato bello finché è durato, arrivederci e grazie.»
«E ti è capitato spesso?»
«Tre? Forse quattro volte. Sai, quando una storia finisce ci si autoconvince di esserci sbagliati. “Se è finito non era vero amore”. Balle. Probabilmente era amore, o qualcosa che gli assomigliava, ma poi è svanito. Capita. È sempre capitato e capiterà ancora.»
«La prendi con molta filosofia.»
«Sai, quando nasci in un posto come questo è bene abituarsi a vivere oggi tutto quello che puoi vivere oggi, mi segui?»
«Certo.»
«Abbiamo imparato a pensare solo al presente, a fare tutto subito, anche in amore, senza grandi programmi per il futuro, senza rimandare niente a domani. Perché non è detto che domani arrivi.»
Shahar lo aveva detto con un tono così rassicurante che Stefano si era quasi convinto che anche quello fosse un aspetto positivo. Ormai si era arreso all’evidenza che quella non poteva essere una conversazione qualsiasi con una ragazza qualsiasi in un posto qualsiasi. Aveva allora deciso di affrontare l’argomento direttamente.
«Ma dimmi un cosa, come riuscite a vivere così? Voglio dire, noi in Europa non ci siamo ancora ripresi dallo shock degli attentati di Parigi del novembre 2015, mi chiedo come possiate uscire, andare nei locali a divertirvi, andare allo stadio, nei palazzetti, stare in mezzo alla folla, con tutto quello che succede qua.»
«Ci conviviamo fino dalla nascita: fin da piccoli sappiamo che la nostra vita corre su un filo che si può spezzare da un momento all’altro. La cosa positiva, se può esistere qualcosa di positivo in tutto questo, è che può capitare in qualsiasi luogo: sono tutti posti sicuri ed insicuri allo stesso modo. E allora non ci resta che provare a vivere come se niente fosse, facendo tutte le cose che faremmo se non ci fosse nessun pericolo.»
«Sai, oggi ero ad Haifa da un cliente.»
«Haifa è bellissima. C’è un mare stupendo!»
«Be’ anche il lungomare di Tel Aviv non è affatto male.»
«Sì, ma lassù ci sono dei colori incredibili.»
«Già, è vero. Ecco dicevo… stasera il mio cliente mi stava accompagnando all’autonoleggio dove ho preso un’auto per tornare a Tel Aviv. A un certo punto mi guarda ridendo e dice “Mi trovavo proprio qua quando sono cominciati ad arrivare i Katyusha degli Hezbollah nel 2006”, e me lo dice così, capisci? Come se mi avesse detto che in quel posto aveva chiesto a sua moglie di sposarlo, o qualcosa di simile.»
«Sì – aveva riso Shahar – un altro nostro aspetto particolare è che tendiamo a riderci sopra, per sdrammatizzare.»
«Non è finita: in quel momento cominciano ad esplodere dei fuochi artificiali, non so per quale festa. Io ho un mezzo infarto, lo guardo con gli occhi sbarrati, lui mi indica il cielo che si tinge di razzi colorati e mi fa: “Paura, eh?”. No no, è tremendo. Io davvero non so come fate.»
Shahar aveva riso di gusto: «Ahahahah! Questa è fantastica! – poi si era fatta seria – Ma ci sono anche aspetti su cui scherziamo poco, purtroppo: pensa che io ho due fratelli più piccoli, ed entrambi vanno a scuola, ogni mattina prendono due autobus diversi così siamo sicuri, o quasi, che almeno uno dei due tornerà a casa.»
Il volto di Shahar si era rabbuiato, ma solo per un attimo. Non aveva voglia di pensarci, non in quel momento.
Poi il DJ, come se li avesse osservati fino ad allora in attesa del momento propizio, aveva messo il pezzo giusto, Easy di Lionel Richie nella versione dei Faith No More, e allora avevano superato l’imbarazzo di quel momento di tristezza grazie alla prontezza di Stefano che aveva preso i due bicchieri, li aveva posati sul bancone e aveva invitato Shahar a ballare, anche se nel locale non stava ballando nessuno. E così si erano abbracciati stretti e in silenzio, senza pensare a niente, muovendosi seguendo la voce di Mike Patton, avevano cominciato a ballare. E ballando Stefano aveva appoggiato la sua testa a quella di Shahar con la bocca a sfiorare il suo collo, lei lo aveva lasciato fare e allora lui era risalito pian piano dal collo al mento fino alla guancia e infine alla bocca, che aveva trovato pronta ad accogliere la sua. E così, ballando stretti e in silenzio, senza pensare a niente, si erano baciati.
Poi si era fatto tardi e Shahar aveva chiesto a Stefano di proseguire la serata con lei in discoteca, al G-Spot, dove la attendevano le sue amiche. Ma lui le aveva risposto che aveva un appuntamento a Londra l’indomani pomeriggio e un volo molto presto la mattina, e aveva rilanciato invitandola a passare quelle ultime ore della notte nella sua stanza d’albergo. Ma Shahar, senza scomporsi, gli aveva risposto che non era quel tipo di ragazza e che avrebbe raggiunto Aliyah e Shoshannah in discoteca. Allora si erano scambiati i numeri di telefono, insieme con altri baci e con la promessa di rivedersi presto, a Bologna o a Tel Aviv o da qualche parte nel mondo, e ripartire dal punto in cui si erano fermati. E con il cuore leggero e pieno di speranza, Stefano si era incamminato felice verso il Royal Beach Hotel.
E così dopo aver dormito poche ore, si era ritrovato già alle sei davanti all’albergo ad aspettare il taxi che lo avrebbe accompagnato all’aeroporto. Gli avevano parlato della lunghezza e dell’accuratezza dei controlli di sicurezza al Ben Gurion e non faticava certo a indovinarne la ragione, così aveva calcolato di arrivare al check-in tre ore prima dell’imbarco. La procedura era stata in effetti piuttosto complessa: aveva dovuto subito cedere il passo a una decina di caschi blu delle Nazioni Unite che, con ogni probabilità, tornavano a casa per una licenza; ridevano e scherzavano tra loro e si scambiavano foto di ragazze e di luoghi esotici dai rispettivi smartphone. Stefano era stato poi interrogato da due addetti al controllo di frontiera che, con il suo passaporto in mano, gli avevano chiesto almeno cinque volte nome, cognome, luogo e data di nascita, e nomi dei genitori; aveva quindi riempito un modulo in cui dichiarava di non aver intenzione di far esplodere l’aeromobile e che nessuno gli aveva messo una bomba nel bagaglio a sua insaputa.
Si era sottoposto ad una capillare perquisizione personale con il metal detector, poi aveva passato il trolley e la ventiquattrore allo scanner ma, non ancora soddisfatti, gli addetti della sicurezza gli avevano aperto le valigie e controllato nuovamente minuziosamente ogni singolo indumento ed ogni singolo pezzo del suo bagaglio. Alla fine, grazie anche al deserto che popolava lo scalo a quell’ora, la cosa si era comunque risolta in una cinquantina di minuti e così si era ritrovato a dover aspettare il suo volo nel gelo della sala d’attesa del terminal 3, dove la solita aria condizionata sparata alla massima potenza manteneva la temperatura a livelli polari.
Si era alzato il bavero della giacca e si era rannicchiato a braccia conserte contro la vetrata del gate, sperando che il sole ormai alto lo potesse scaldare anche attraverso la spessa barriera antiproiettile. Aveva sollevato lo sguardo verso il cielo, un cielo di un blu incredibile, limpido e trasparente come non ne aveva mai visti in vita sua, nemmeno durante quelle vacanze in montagna, anni fa, con i suoi genitori. Aveva cercato la colonna sonora giusta scorrendo le playlist del suo smartphone: Sorvolando Eilat, e aveva annuito tra sé ascoltando i passaggi del testo. Sotto c’è Israele nella sua immobilità coi suoi cieli chiari controllati, mare azzurro stretto dai deserti un po’ più in là, spiagge rosse… «Qua Mogol era proprio in forma», si era detto tra sé.
Poi aveva riflettuto sulla magia di quel posto dalle mille contraddizioni e si era domandato se sarebbe stato pronto a viverci, insieme con Shahar. E subito dopo si era domandato se fosse davvero possibile provare qualcosa di così profondo da poter mettere in discussione un’intera vita, per una ragazza conosciuta poche ore prima. Si era risposto con un sorriso che aveva visto riflesso nella vetrata, proprio mentre chiamavano il suo imbarco.
E adesso era seduto al suo posto finestrino del volo El-Al da Tel Aviv a Londra Heathrow e continuava a fissare la home page di Ha’aretz in lingua ebraica sul suo tablet. La schermata era esattamente la stessa che aveva visto pochi minuti prima sul monitor davanti a sé, trasmessa dalla televisione israeliana di notizie i24news, con un sottotitolo che recitava BREAKING NEWS. Nella fretta di cercare quel sito non era riuscito a trovarne la versione inglese ed ora contemplava quegli strani caratteri tentando di decifrarne il significato. Sotto a quei segni incomprensibili c’erano tante foto, sfocate e di bassa qualità, ma una di queste aveva attirato la sua attenzione, appena l’aveva vista passare al notiziario. Sapeva che doveva fare quella domanda, anche se in cuor suo la riteneva del tutto inutile, ma non si poteva permettere di passare tutte quelle ore di volo col dubbio.
Si rivolse al vicino di posto, un giovane ebreo ortodosso con payot e kippah d’ordinanza e indicandogli con un dito la foto che gli interessava gli chiese di tradurgli la didascalia. Quello rispose: «Shahar Klein, 29 anni», Stefano sentì una stretta allo stomaco e deglutì con fatica, poi spostò il dito sul titolo principale che occupava l’intera pagina e guardò il suo interlocutore con gli occhi imploranti, il giovane annuì gravemente e mentre gli occhi iniziavano a luccicargli, lesse: «Strage alla discoteca G-Spot. 11 morti».
Stefano voltò di scatto il viso verso il finestrino e non riuscì a dire, a fare, né a pensare a niente; l’aereo intanto aveva già terminato la fase di rullaggio e si apprestava al decollo, pochi secondi dopo l’accelerazione di gravità lo schiacciò contro il suo schienale, ma riuscì comunque a girare nuovamente la testa verso l’oblò e a vedere la sagoma della città diventare sempre più piccola. Poi l’aereo effettuò una decisa di virata e il profilo di Tel Aviv scomparve dalla sua vista. Per sempre.