di Massimiliano Renaud
Il paio di guanti di pelle nera posati sulle gambe lo facevano sembrare un vero killer professionista, ma le gocce di sudore che brillavano sulla sua fronte stridevano con il ruolo di cecchino dal sangue di ghiaccio che, di lì a poco, avrebbe dovuto interpretare.
Jack era soltanto un ex impiegato di una multinazionale che, grazie a un fortunatissimo investimento in borsa, aveva fatto abbastanza soldi da non dover più lavorare e solo tre giorni fa, era dal miglior concessionario della città a scegliere la sua nuova supersportiva. Ora, invece, si ritrovava con due amici in uno scantinato fissando il vuoto e stringendo fra le mani umide una semiautomatica calibro ventidue.
Peter, che da qualche minuto lo osservava preoccupato, provò a distendergli i nervi stappando un Cabernet sauvignon californiano del 2007 pescato dallo scaffale in legno della cantina.
“Hey, come stai?” Disse porgendogli un calice mezzo pieno.
“Come cazzo dovrei stare Pete? In quarantotto ore mi sono trovato a dover organizzare un piano da professionista del crimine, senza aver neanche mai rubato le caramelle da un supermercato.” Rispose Jack afferrando il cristallo.
“Stai tranquillo Jackie, so quello che faccio, le planimetrie che mi sono arrivate dirette dagli archivi pubblici ci danno un gran vantaggio. Conosciamo il posto meglio delle nostre stesse case, sono due giorni che studiamo le stanze, il cortile esterno, le vie di accesso e poi, abbiamo Sam. Fidati di me, non possiamo sbagliare.”
“No Pete, non sbaglieremo, il prezzo da pagare sarebbe troppo alto.”
L’unico che sembrava non accorgersi dell’aria grassa di tensione era Sam che sdraiato su una poltroncina di velluto nero, lucidava il suo cannone. Era stato militare di carriera, congedato dopo essere rimasto vittima di un agguato in Iraq. Viveva con una pensione da reduce e continuava a coltivare la sua unica passione: i ferri esplosivi, come li chiamava lui. E da buon ex soldato, si sentiva talmente a proprio agio in quelle situazioni che, ogni tanto, sembrava addirittura potersi addormentare, come un padre annoiato che aspetta di partire per una gita in campagna con la famiglia.
Quando cadde la luce, dopo un invisibile cenno d’intesa uscirono insieme dalla cantina accedendo direttamente al garage, dove li attendeva il fuoristrada nero noleggiato qualche ora prima.
Jack sospirò troppo profondamente e tossì, si passò una mano fra i capelli madidi di sudore, accese contemporaneamente motore e sigaretta e imboccò il vialetto di casa. La febbrile determinazione con cui si erano preparati non bastava a spezzare un ingombrante silenzio, crepato solo dal continuo ticchettio delle unghie di Jack che tormentavano l’inserto in acciaio al centro del volante.
Quante ne ho passate con questi due, pensava fissando l’ultimo riflesso del tramonto sul vetro della Chevrolet azzurra che li precedeva, notti folli, viaggi, avventure e anche questa volta siamo ancora qui, oltre le nostre distanze, oltre le diverse scelte di vita, oltre gli ostacoli che in tanti anni possono nascere nei rapporti umani.
Per fortuna ci sono loro, mi sto cagando sotto.
“Allora ragazzi, c’è qualche domanda o è tutto chiaro?” Chiese Peter, la mente del gruppo, manager di un’azienda petrolifera e formidabile pianificatore che, grazie a qualche aggancio politico, in meno di ventiquattro ore si era procurato le planimetrie della vecchia azienda in disuso dove era custodito l’obiettivo della loro missione.
“Tutto chiaro” Biascicò Sam dal sedile posteriore, con una smorfia resa innaturale dalla cicatrice sulla guancia sinistra.
“E tu, Jack? Sei il più coinvolto, potresti perdere lucidità, ti ricordi tutto?”
L’amico rispose come un automa:
“Aggirare edificio, scavalcare recinzione, rimuovere grata condotto aria, dentro, cucina, salone, scale, sala riunioni, Bingo! Non possiamo sbagliare…”
Parcheggiarono sul retro del capannone che dovevano assaltare e scesero dall’auto con armi cariche e passamontagna in testa.
Nel cortile, le radici degli alberi avevano strappato l’asfalto e ciuffi d’erba sbucavano come dita dalle crepe. Prestando attenzione a non cadere, corsero lungo la parete della vecchia fabbrica di scarpe, si infiltrarono nel condotto d’aria e dopo pochi metri di tunnel scivolarono nell’enorme cucina di quella che, anni prima, doveva essere una mensa aziendale.
“Ci siamo.” Sibilò Jack trasudando tensione.
“Tranquillo, te lo dicevo che i disegni erano perfetti. Adesso silenzio, ricordati che di sopra ci sono almeno un paio di bastardi a mano armata che ci aspettano.”
“Hai ragione Pete, perdonami, ma ho le mani e le gambe che tremano e parlare mi rilassa.”
“Se continui ancora, ti ucciderà” sentenziò Sam in un impeto di loquacità, sorpassando i suoi compari per mettersene a capo. Quello, era il suo territorio.
Jack annuì e seguì l’amico all’interno di un salone dai muri ammuffiti, superarono una giungla di sedie e tavoli accatastati e raggiunsero la scalinata che portava al piano superiore.
Una luce giallognola dall’alto illuminò i loro passi da serpente fino allo scheletro impolverato degli ex-uffici amministrativi. Tutto come previsto.
A sinistra, la vecchia sala riunioni, la loro meta, la stanza del tesoro.
Stanza che, naturalmente, era ben protetta.
Percorsero tre gradini nella direzione da cui erano venuti per nascondersi da un’ombra che si allungò davanti ai loro occhi. L’uomo, enorme, portava una felpa con il cappuccio alzato, un paio di pantaloni militari e un fucile a pompa artigliato nella destra.
Stava ancora posando l’arma per farsi una pisciata contro al muro quando Sam gli fu addosso, preciso e letale come un Black Mamba: il gigante sentì il collo torcersi di centottanta gradi e non ebbe nemmeno il tempo di soffrire.
Sam sostenne la preda cingendole la vita per attutirne il tonfo e dopo aver verificato il silenzio nel suo petto, la adagiò sopra una scrivania.
“Non so se ce la faccio Pete!”
“Non dire cazzate, hai visto chi ci siamo portati? Questo qui a colazione mangia metallo e piombo!”
“Sam è una macchina da combattimento, ma io non sono mai stato in guerra Peter! Non so che cazzo farci con questa pistola!”
“Non dovrai farci niente, andrà tutto liscio. E poi, puoi forse tirarti indietro?”
Gli occhi di Jack liberarono una lacrima di paura e disperazione.
“Non posso.”
Un cenno con il capo e Sam entrò in azione: scagliò un calcio alla porta che franò al centro della stanza, Peter si buttò dentro e ruotò gli occhi ai quattro lati del salone sventagliando la pistola con il dito sul grilletto. Una lampada verde illuminava l’angolo a destra ma nessuno si fece avanti e poi, un gridolino strozzato ruppe un silenzio perfetto.
Dal lato buio della sala, sputata da un silenziatore, una scia mortale fendette l’aria.
Jack entrò nella stanza mentre il bicipite di Pete veniva deformato da un proiettile e la seconda sentinella uscì allo scoperto con l’arma puntata all’altezza delle teste, pronta a concedere il bis.
Uno sparo, una mandibola e buona parte di cervello ad affrescare la parete bianca.
Ancora un lamento dal buio, poi silenzio assoluto.
Jack sondò la penombra con lo sguardo ma non vide nulla di ciò che si aspettava di trovare. Sam avanzò di qualche passo, spostò uno scaffale di ferro ancora pieno di documenti e ragnatele e guardò l’amico dritto in faccia:
“E’ qui.”
Jack superò lo scaffale e trovò tutto ciò per cui aveva lottato fino a quel momento.
“Chi sei?” Sussurrò la bambina accucciata e con i polsi legati mentre fissava gli occhi di quell’uomo che, pian piano, si inumidivano dietro al passamontagna.
Il film delle ultime quarantotto ore si proiettò nella mente di Jack: la voglia di morire quando si accorse che la figlia era sparita dal parco davanti a casa, il senso di impotenza davanti alla richiesta di riscatto smisurato che non avrebbe mai potuto pagare, il terrore per l’ultimatum di tre giorni, le minacce telefoniche dei rapitori e il momento in cui capì che avrebbe dovuto risolvere il problema da solo.
Quando quel penoso lungometraggio immaginario svanì, alzò il passamontagna e crollò sulle ginocchia:
“Sono io, tesoro mio, sono papà.”