di Irma Nisi
La mattinata di Franchino era trascorsa in affanno. Di lavoro ce n’era troppo: fra la semina di angurie e meloni e la raccolta di fave e piselli c’era da spaccarsi la schiena. Ma fortunatamente anche quella giornata lavorativa volgeva al termine e già pregustava il momento in cui avrebbe fatto un po’ di luce in quel fitto mistero.
Certo che Don Egisto non ce la poteva avere ancora con lui per quella stupida faccenda.
I soldi del debito glieli aveva restituiti tutti e per pagare gli interessi aveva lavorato per lui tutte le mattine del sabato per un anno intero. Poi gli aveva chiesto quell’altra cosa e pure quello aveva fatto, tant’è che suo figlio l’aveva chiamato Egisto.
«Un nome di merda», si era detto guardando il piccolo che dormiva appena nato nella culla, ma meglio non scherzare su queste cose.
«E quindi?» continuava a domandarsi, «quindi l’unico motivo che può avere Don Egisto per scrivere quel biglietto, è che proprio non gli è andata giù la storia di quei due ettari di terra».
L’anno prima, dopo per aver risparmiato per diverse stagioni su sapone liquido e vestiti della festa, era riuscito a comprarsi un po’ di terra. La cosa lo aveva fatto felice perché pur con due miseri ettari adesso anche lui si sentiva un proprietario terriero, piccolo, minuscolo, invisibile, ma sempre proprietario.
E sui suoi campi aveva piantato subito caroselli e, vatti a spiegare come, la sua varietà l’anno dopo aveva vinto il primo premio alla fiera agricola del paese. Proprio quell’anno, anche il nipote prediletto di Don Egisto, Angelo Pizzicafuecu, figlio dell’amata sorella, aveva per gioco piantato trenta ettari a caroselli e barattieri. Pare che ambisse a vincere il primo premio a tutte le fiere della provincia e quando al posto suo fu premiato Franchino, Pizzicafuecu rimase deluso e piuttosto irritato. Don Egisto seccato aveva chiamato Franchino e gli aveva detto che lui le fiere se le doveva dimenticare. Caroselli e barattieri li poteva coltivare, vendere, mangiare e regalare, ma mai e poi mai avrebbe dovuto concorrere ad un premio. A Franchino in quel momento gli era scappato un sorriso perché si ricordava la faccia di Angelo Pizzicafuecu quando non lo avevano premiato. «Che hai da ridere?» gli aveva detto Egisto: «Ridi, ridi, che se hai vinto quel premio, hai piantato caroselli, hai comprato il terreno, ‘mbè, lo devi solo a me che t’ho aiutato quando hai avuto bisogno. Il debito lo hai estinto, mi raccomando non estinguere pure la riconoscenza».
«Sicuro», si disse Franchino, «sicuro che qualche cornuto gli ha messo in testa che pure quest’anno voglio vincere la fiera e che non sono più riconoscente con chi mi ha aiutato». Che poi il desiderio c’era, ma neanche morto avrebbe disobbedito a Don Egisto. Lui al mondo aveva imparato a starci e ci voleva rimanere. Altro non si poteva fare che cercare il bandolo della matassa e chiarire la situazione.
Dopo pranzo avrebbe fatto un passo avanti in quella direzione, lo sapeva e non vedeva l’ora che ciò accadesse.
A tavola si respirava aria pesante, Egisto guardava i suoi genitori: a diventare adulti non c’era proprio nessun guadagno, suo padre da due giorni sembrava in preda a una furia silenziosa e misteriosa, sua madre già lo immaginava portato via con la camicia di forza. Eppure gli avevano detto che da grandi la vita si vedeva con occhi diversi, l’esperienza avrebbe aiutato a cogliere il lato ironico dell’esistenza. Al momento non gli pareva proprio, anzi il silenzio con cui ognuno di loro affrontava il pasto era talmente opprimente che quasi quasi sperava gli prendesse un attacco di nervi, a suo padre, e cominciasse a gridare. Sarebbe stato almeno divertente, ne sarebbe valsa la pena così.
«Egisto, passami il vino», furono le uniche parole prima che dicesse: «Luciana dammi la torta, devo andare».
Luciana tolse la crostata dal frigorifero e trovò il coraggio di domandare: «Ma Franchino, dove la porti?». Per tutta risposta ricevette un grugnito e, sottratta la torta dalle mani di sua moglie, uscì di casa con lo sguardo fiero di chi è consapevole che sta facendo un passo importante.
Giunto davanti alla villetta dall’intonaco giallo, suonò il campanello. Nell’attesa che qualcuno venisse ad aprire, si guardò intorno. In giro non c’era nessuno. Forse non era l’orario migliore per una visita, ma sempre meglio essere discreti.
«Sì, chi è?» si sentì chiedere da una fessura nella porta di legna scuro.
«Maestro, Franchino sono, mia moglie vi manda una torta».
La porta si aprì e in due passi Franchino, percorso il breve tratto fra il cancelletto e il portone, si introdusse nell’ingresso di casa Pelusi.
«Maestro Pelusi, buongiorno. Scusatemi per l’orario, ma non posso più aspettare, ho un pensiero che mi sta divorando. Solo voi mi potete aiutare», gli disse sottovoce, guardandosi attentamente intorno.
«E che sarà mai!» lo incalzò Pelusi che reggeva in mano la profumatissima crostata di frutta. «Aspettate due minuti che ci sediamo e mi racconti tutto. Gabriela!».
La signora Pelusi arrivò sorridendo: «Buon pomeriggio Franchino. Ma che bella torta, l’ha fatta vostra moglie? Che combinazione, proprio oggi ci siamo incontrate dal dottore. Sedetevi comodi nello studio che ve ne porto una fetta insieme al caffè, un dolce così va subito onorato».
E senza far caso alla faccia sorpresa di Franchino, lo accompagnò in uno studiolo piccolo, soffocato da libri, carte, penne, matite, fogli ripiegati a metà e vergati da segni rossi e blu. La vista di tutta quella cultura ebbe su Franchino un effetto rilassante: ipnotizzato dal dorso di un volume spesso quanto un pezzo di pecorino, giunse alla conclusione che per Pelusi trovare una soluzione al mistero sarebbe stato banale e si rimproverò per aver tardato tanto nel rivolgersi a lui.
«Allora Franchino, che succede?» gli chiese con fare paterno Il maestro, sorseggiando dalla tazza il caffè dall’aroma deciso che sua moglie aveva imparato a fare.
«Ah maestro, maestro, non c’è pace per me, mai, mai posso stare sereno! Tutto sembrava filare liscio, lavoro, moglie, figlio, quando all’improvviso spunta sto biglietto».
Il Pelusi prese fra le dita il biglietto, si levò gli occhiali appannati dal fumo del caffè e cominciò a esaminare il pezzo di carta spiegazzato. Dapprima lo guardò sul davanti e sul retro, poi controluce sotto il raggio caldo e luminoso della lampada da tavolo; terminata l’ispezione visiva lo tastò delicatamente, quindi lo annusò più di una volta. «Ma dove lo avete trovato?» disse «Avverto un lieve e non definibile odore di formaggio a pasta dura misto ad un più intenso olezzo di sterco».
Franchino arrossì e imbarazzato gli disse che glielo avevano recapitato proprio a casa e che nient’altro poteva aggiungere sulla sua origine.
Pelusi inforcò gli occhiali, si alzò dalla scrivania e si parò di fronte alla libreria alle spalle di Franchino. Fece scorrere il dito su una serie di volumi e alla fine batté più volte indice e medio su un libro sottile che a malapena si riusciva a scorgere, soffocato com’era da tomi ben più consistenti. Pelusi lo estrasse dalla fila, consultò annuendo con la testa alcune pagine e infine lo poggiò di fronte a Franchino. «Eccola la risposta», gli disse prima di riempirsi la bocca con un boccone di crostata.
Franchino guardava inebetito prima il libro e poi il maestro, ma questi non sembrava intenzionato a proseguire, anzi estrasse dalla tasca il fazzoletto e cominciò ad asciugare le gocce di sudore che inaspettatamente gli imperlavano la fronte.
Poi si abbandonò di peso sulla poltrona e disse: «Non ci vedo niente di buono in tutto ciò, ragazzo mio!»
«Ma maestro, ma che avete scoperto? Io non ci capisco più niente».
«Franchino, qui c’è solo un pensiero da fare: scappare! Scappare alla veloce e scappare lontano».
La fetta di torta mangiata poco prima risalì la corrente a mo’ di un salmone e Franchino fece appena in tempo a tirare fuori il fazzoletto prima di liberarsi.
«Gabriela! Gabriela!» prese a urlare il Pelusi.
Quando Gabriela arrivò, si trovò di fronte due uomini giallognoli in faccia, madidi di sudore e del tutto alterati nell’umore.
Le ci volle un bel po’ per convincerli a trasferirsi in salotto dove, dopo aver servito una camomilla, li lasciò soli, consapevole che quello non fosse il momento di far domande e dubbiosa della genuinità della bella torta appena ricevuta.
I due uomini si guardarono negli occhi per qualche secondo, ma alla fine Franchino con un accento di supplica ruppe gli indugi: «Maestro, sono venuto da lei certo che sarebbe stato in grado di aiutarmi. Al momento mi ha messo addosso tanta di quella paura che mai avevo provato in vita mia. La prego mi spieghi, ho un figlio e una moglie. È a loro che sto pensando».
Il maestro rimase in silenzio ancora per qualche secondo, lo sguardo che inseguiva un ipotetico punto al di sopra della sua testa, ma poi si lasciò andare e fissando Franchino gli disse: «Non ho dubbi, questa è una questione di spionaggio internazionale, Franchino, o tu sei una spia dei russi o c’è stato uno scambio d’identità. Quello che mi hai mostrato è un messaggio in codice, senza dubbio. Come senza dubbio chi lo ha scritto ha voluto firmarsi con quella sorta di enne capovolta. La decima lettera dell’alfabeto cirillico, una specie di i, forse prima lettera del nome Ivan».
«Ivan… Mò pure Pelusi s’è scimunito!», Franchino ripercorreva a ritroso la strada verso casa. Una spia russa! Lui una spia russa! Ma come poteva solo pensare a una cosa simile, il maestro dopo la nascita della bambina doveva aver perso qualche colpo, di sicuro si era sbagliato. Pure tutti quei libri gli avevano annebbiato la mente, non poteva essere altrimenti. Eppure quella enne capovolta… Anche se era un ignorante l’aveva vista con i suoi occhi stampata nel libro.
«Che faccio adesso, a chi posso chiedere consiglio? Chi può aiutarmi a capirci qualcosa?».
Giunto in prossimità di casa, si appoggiò alla cancellata e nascose la faccia fra le mani. In bocca l’acidità si confondeva al gusto della camomilla e rendeva il sapore ancora più insopportabile. Era tutto complicato, tutto difficile. Ma non doveva lasciarsi andare, era un uomo, un padre e un marito, a sua moglie e a suo figlio ci doveva pensare lui. Così si alzò, si asciugò gli occhi velati di lacrime e con coraggio cambiò direzione e si diresse verso l’antro della zia Pasana.
Gabriela intanto, dopo aver pulito e riassettato, il marito dedito allo scolaro di turno, decise di fare due passi e preparata la bambina si diresse verso casa di Franchino preoccupata per la sua salute.
«Luciana, Luciana» la chiamò attraverso il cancello vedendola affaccendata sotto il glicine.
«Gabriela, che coincidenza, due volte in un giorno».
«In realtà sono passata apposta per sapere come sta tuo marito, visto che quando è venuto a casa mia per portare la crostata non si è sentito bene».
«Ma che vai dicendo? A te l’ha portata la crostata? E per quale motivo?»
«E che ne so io, so solo che si sono chiusi, lui e mio marito, nello studio e dopo aver preso il caffè e mangiato una fetta di torta Franchino ha vomitato. Li ho fatti spostare nel salotto per pulire e allora ho sentito delle cose…Parlavano di spie russe, di pericolo di vita, di lettere capovolte e firme nascoste. Io non ci ho capito niente, ma li ho visti entrambi così sconvolti che ho pensato fosse meglio dirti tutto: io li conosco i mariti, si tengono tutto dentro fino a quando poi è troppo tardi e a noi tocca sempre il peggio».
Egisto, nascosto dietro un grande vaso di gerani, osservava e ascoltava irrequieto la conversazione.
«Non può essere, non può essere», continuava a ripetersi, «non può essere per quello». Ma la sua preoccupazione non era minimamente assimilabile a quella che Luciana aveva in corpo: «Egisto corri, vai a chiamare il dottore che papà sta male, corri, corri!», si sentì prima ordinare e poi «No, ci vado io dal dottore. Quando torna papà, digli che sono andata al cimitero e non farlo uscire più. Gabriela per favore aspetta qui, che se ci stai tu, lui di sicuro da casa non si muove»
Giunta dal dottore, prese a suonare il campanello come una forsennata.
L’uomo si precipitò alla porta: «Signò di nuovo tu? Ma che succede?» le disse con poco garbo.
«Che succede dottò, che succede? Succede che quello è uscito pazzo davvero, dottò, è convinto di essere una spia russa. La signora Pelusi, che mi sta aspettando a casa, è venuta a raccontarmelo. Dottò, lo dovete visitare, venite per favore».
Il giovane medico ripercorse con la mente la linea della bocca, piccola e burrosa di Gabriela, «andiamo», le disse, «e stia tranquilla, vedrà che non ci sarà nulla di grave».
Franchino percorreva la strada a grandi falcate, capiva solo ora quanto fosse stato stupido. Il parroco? Il maestro? No, in preda all’ansia aveva ragionato poco e male. Era zia Pasana l’unica che conosceva intimamente tutto ciò che avveniva in paese e anche fuori. A chi si rivolgevano le madri per sapere se le loro figlie sarebbero convolate a nozze prima dei venticinque anni, età oltre la quale avrebbero dovuto accontentarsi di tutto pur di non rimanere zitelle? Da chi andavano gli uomini per sapere se in famiglia qualcuno stava facendo il furbo e briciola dopo briciola si stava accaparrando l’eredità a discapito di tutti i fratelli? E le giovani moglie non ancora gravide dopo mesi? L’unica era zia Pasana. Che stupido, pure sua sorella aveva fatto ricorso alle arti della masciara quando pareva che il figlio minore fosse stato infascinato. Solo che lui a ste cose non ci aveva mai creduto, non ci voleva proprio credere. Erano roba da femmine e da creduloni. Ma adesso però capiva che la donna era la persona giusta a cui rivolgersi: che fossero arti magiche o semplice furbizia, a quella niente era nascosto. Lei l’avrebbe aiutato.
Quando arrivò nei paraggi della casa, si guardò intorno con circospezione. Nessuno a destra, nessuno a sinistra, un balzo e, spingendo la porta, si ritrovò dentro la cucina buia e soffocante in cui la vecchia riceveva i clienti, le povere anime belle e sfortunate, come le chiamava lei.
«Zia Pasana, buongiorno!» esordì.
«E ci sinti tu? A ‘nci appartieni? Cu ci fai all’amori?» si sentì sibilare per tutta risposta e poi con un repentino salto all’italiano: «L’educazione non te l’hanno insegnata? Si bussa prima di entrare intra casa ti li cristiani!»
«Zia Pasà, Franchino sono, quello dell’olio. Scusatemi, ma la testa ce l’ho piena di pensieri, per questo sono venuto da te».
«Ragazzo mio, non te l’hanno spiegato cosa devi fare per venire qui. Bisogna creare un flusso, un contatto per trasferire i pensieri tuoi al corpo mio. E per creare sto legame ci vuole la cosa, che mi deve dare l’energia, la scarica».
Franchino con gli occhi spalancati tentò di balbettare qualcosa a bocca socchiusa, ma la vecchia, anni di esperienza alle spalle, lo invitò garbatamente a tornare:
«No, taci, o tutto risulterà vano! Ti vedrò alla stessa ora domani, ma solo dopo una scelta accurata della cosa, che se non è fresca, abbondante e nutriente abbastanza, c’è il rischio che non funzioni…».
«Quella è una furbona, a me non me la conta: il flusso, il contatto, la cosa, pagliacciate, tutte pagliacciate per fottere i fessi. Ma non me, non me» si disse Franchino, scartando definitivamente la carta della masciara dal mazzo delle possibilità. Assorto com’era nei suoi pensieri e sempre più persuaso che l’unica cosa da fare fosse attendere un nuovo messaggio, davanti casa trovò Gabriela intenta a cullare al suo seno la piccola Concepita, ma non si accorse di Egisto che la guardava impacciato da sotto il glicine.
«Signora buon pomeriggio, come state e come sta il Maestro Pelusi? Venite in casa, che almeno vi potete sedere».
«Buon pomeriggio Franchino» rispose Gabriela entrando e abbandonandosi sulla prima sedia a disposizione, «mio marito, lui sta bene, ma voi, voi come vi sentite? Avevate una faccia prima. Mi sono preoccupata. Per questo son qui, per vedere se vi siete ripreso».
Franchino non ebbe il tempo di aggiungere nulla perché proprio in quel momento vide Luciana varcare la porta di casa insieme ad un uomo. Un giovane uomo di cui fino ad allora aveva ignorato l’esistenza.
«Lucià, dove sei stata?» gli uscì dal cuore.
«Franchino, marito mio, Gabriela mi ha detto del fatto, mi ha raccontato quello che è successo a casa sua, che non ti sei sentito affatto bene. E io mi sono preoccupata e sono andata a chiamare il dottore. Te lo ricordi il dottore nuovo, che è arrivato qualche mese fa».
Franchino li guardava stranito tutti quanti.
«Io sto benissimo, non ho proprio niente», rispose sgarbato, «grazie signora Pelusi, le consiglio di tornare a casa che sua figlia sarà stanca».
«Ma Franchino, marito mio, visto che il dottore è qui, perché non ti fai fare una bella visita, così stiamo tutti più tranquilli?».
Franchino guardò dapprima sua moglie, poi con insistenza il dottore.
«Dottò, mi dovete scusare, ma io il nome vostro non lo conosco, o non me lo ricordo. Che mi potete dire come vi chiamate?»
«Signor Spagnulo, Franchino, non si scusi», rispose il dottore cercando di imbonire l’inatteso paziente, «mi chiamo Gerbina, dottor Ivan Gerbina».
«Ivan» urlò Franchino «Ivan, lo sapevo, Pelusi aveva ragione».
Luciana, Gabriela e il giovane medico lo guardarono allibiti e in coro risposero: «Pelusi?»
Ma Franchino era ormai incontenibile, con una spinta aveva buttato a terra il dottore e ora lo minacciava con l’attizzatoio.
«Stai là, LATRONI MUCITU! I sorci verdi mi hai fatto vedere, ma adesso tu non ti muovi di qua. Luciana, chiama i carabinieri!»
«Ma che sta dicendo?» gli disse il dottore cercando di ammansirlo, «Metta via quell’arnese che rischiamo di farci male».
«Male? Io a te, ti faccio a pezzi se non mi spieghi che vuoi da me. Lo vedi questo? In testa te lo spacco, che le brave persone bisogna lasciarle in pace».
«Ma se è la prima volta che la vedo, cosa posso mai averle fatto?»
«Franchino, calmati per favore, il dottore manco ti conosce», ebbe il coraggio di dire Luciana.
«E mio marito poi, Franchino, cosa mai può averti detto contro sto povero dottore», aggiunse Gabriela mentre cullando la bambina cercava di tenerle la bocca chiusa con un ciuccio che continuava a cadere.
Egisto nascosto dietro la tenda era come paralizzato. Possibile, si domandava, che suo padre stesse facendo proprio questo.
«Chiamate la polizia, i carabinieri, la guardia di finanza, sto fetente se lo devono prendere altrimenti io lo ammazzo». Franchino era oramai incontenibile. La paura nutrita negli ultimi giorni si era trasformata in rabbia, il viso paonazzo preludeva alla catastrofe.
«Ma io non le ho fatto niente» ripeteva il dottore indietreggiando sui gomiti e cercando di diventare sempre più piccolo, mentre Franchino avanzando faceva oscillare l’attizzatoio come una mazza da baseball.
«Niente eh, mi hai fatto, niente! Almeno le mani te le potevi lavare, maiale, quando mi hai scritto quel biglietto. Ti sei sbagliato, Ivan, ti sei sbagliato, perché io debiti non ne ho e con voi russi non ho niente a che fare».
«Cosa sta dicendo?» urlò il dottore cercando di proteggersi la testa con le braccia.
Ma mentre Franchino sollevava l’attizzatoio sotto gli occhi increduli delle donne e lo dirigeva sulla figura del dottore, un urlo squarciò il terrificante silenzio: «Sono stato io!».
Tutte le teste all’unisono si volsero verso la tenda che aveva parlato, le braccia di Franchino persero la coordinazione e l’attizzatoio finì col colpire la mensola del camino.
Egisto, una sagoma bianca dietro un velo di crêpe de chine, non accennava né a muoversi, né a dire altro.
«Egisto, mammà, che stai dicendo?» ancora una volta fu Luciana la prima a reagire, mentre il dottore, approfittando del momento di distrazione di Franchino sgattaiolava verso l’uscita coperto dal corpo in perenne dondolio di Gabriela.
Una bocca sdentata apparentemente priva di vita cominciò a raccontare: «Mammà, io non ne posso più. Lui, lui», indicò l’immobile Franchino, «lui mi sta distruggendo la vita! E prima mi ha chiamato Egisto, e poi mi porta a raccogliere l’olio e tutti a scuola mi chiamano Friol, ma soprattutto non è mai contento, sempre a lamentarsi di quello che faccio, di quanto so’ bravi i figli degli altri, che io non combinerò mai niente, che so’ zuccone e scarparo. E allora gli ho voluto mettere paura, ma mica mi immaginavo che quello si scimuniva, mica me lo potevo figurare che questo si metteva a pensare che stavamo dentro a una spy story, manco che è James Bond».
Le donne guardavano alternativamente ora verso Egisto, ora verso Franchino, mentre il dottore un po’ rilassato ma sempre sull’attenti assisteva alla scena nascosto dietro la porta.
«Ma che hai fatto Egisto per spaventare così tuo padre? Che ti sei inventato?» gli chiese Gabriela stringendo forte al petto la neonata, felice che fosse una femmina.
Il tempo per rispondere non ci fu perché Franchino come riemerso da un periodo di catalessi corse verso la tenda, brandendo l’attizzatoio:
«Maledetto, mo’ se ti prendo te la faccio vedere io!». E mentre Egisto si liberava dalla tenda e, travolgendo il dottore, cercava di allontanarsi dalle grinfie paterne, Luciana cercava di trattenere il marito con tutta le sue forze, sbarrandogli per qualche istante il percorso, fino a quando padre e figlio si persero alla vista, lasciando agli astanti un’eco di grida indistinte sempre più lontane e confuse.
La domenica delle prime comunioni, alcuni giorni dopo
La chiesa era gremita di bambini in giacca blu e papillon bianco seduti accanto a candide sposine pronte ad accogliere il corpo di Cristo nei loro abiti di organza.
Le madri di questo piccolo esercito sfoggiavano collane e bracciali sottratti ai loro abituali nascondigli, mentre i padri, già stanchi, allentavano il nodo della cravatta nell’attesa che il sacerdote concludesse la messa.
Nell’ultima fila Luciana sedeva impettita fra suo marito ed Egisto. Quando infine il parroco invitò tutti a lasciare la casa del Signore per dedicarsi alla parte profana del rito, i tre si alzarono e si incamminarono, Franchino in testa, Luciana a seguire ed Egisto leggermente zoppicante a chiudere.
Appena giunti sul sagrato brulicante di nonni, zii, cugini e parenti collaterali fino al decimo grado, Franchino si voltò per tornare dentro: «Faccio presto, non vi muovete», ordinò e scomparve oltre il portone.
Oramai la chiesa, svuotata del suo contenuto di umanità, sembrava un giardino abbandonato, in cui calle, gigli e rose bianche avrebbero ben presto preso il sopravvento. Franchino si diresse con passo certo verso la sagrestia dove il vecchio parroco si stava liberando dei paramenti ecclesiastici.
«Franchino, che ci fai qui?»
«Don Savino», prese a dire tranquillo, «vi ricordate che sono venuto da voi a confessarmi una decina di giorni fa? Vi ricordate di cosa vi ho parlato?»
«Ragazzo mio, e come posso ricordare, rinfrescami la memoria».
«Padre, quello che voglio dire è che avevate ragione, che con certa gente non si scherza, che Egisto, il ragazzo mio, adesso va zoppo».
Il parroco spalancò gli occhi.
«E poi, Padre, mi hanno detto – loro mi hanno detto – di darle questo, che a buon intenditor poche parole».
Franchino si accomiatò dal parroco e raggiunse Luciana leggero, molto più leggero di quanto non fosse mai stato.
Dopo pochi istanti un urlò si levò dalla sagrestia. Quando l’organista giunse nella stanza si trovò di fronte il povero parroco: accasciato, stringeva fra le mani un biglietto giallognolo e maleodorante che alle sue orecchie risuonò come una consistente minaccia, ma che a Franchino sembrò l’unico modo, quello giusto, per placare con ironia la sua rabbia e mettere dignitosamente la parola fine a tutta la vicenda:
ALLORA ИO. AI. AIUTATO QUELL’ANIMA PIA, LATRIИA?
SOLO. CUSTI. GESTI. SAI. FARE. LATROИI. MUCITO.
COSCIEИZA. SPORCHA.
- PAURA?
Sempre divertente e colorita la descrizione fatta da Irma, che oramai ha reso reali e familiari i suoi personaggi…la vita di paese, poi, è uno sfondo che fa da perfetta scenografia alle amenità quotidiane.
Bravissima!