di Mattia Bragadini
Una specie di ritorno a casa
Ok, ok, il viaggio in California è finito: abbiamo salutato Los Angeles e con una punta di invidia i nostri compagni di avventura che si fermano una notte in più. Ci siamo diretti ciascuno al proprio terminal senza nascondere quel pizzico di sana nostalgia che ti avvolge quando qualcosa di bello finisce. Ma alla fine di un viaggio indimenticabile, anche il ritorno a casa deve farsi ricordare. O no?
Eravamo rimasti che il mio volo per Monaco di Baviera si presenta con un ritardo di oltre un’ora già in partenza, a ciò bisogna aggiungere che la mia coincidenza per Malpensa parte quasi due ore dopo il tempo stimato all’arrivo. Morale: sono tranquillo, anche perché ci sono buone probabilità che l’aereo recuperi parte del ritardo in volo.
Invece no.
Ora, per comprendere appieno la situazione che mi si sta proponendo, occorre spiegare (ai pochi a cui non è ancora capitato) che viaggiare verso est è una delle esperienze più stranianti che possano capitare, perché andando in senso opposto rispetto al moto apparente del sole, a grandi linee ad ogni ora di volo corrisponde un’ulteriore ora di fuso orario. In sintesi, e ragionando in ore locali, sono partito alle 18:30 del sabato da Los Angeles e atterrerò a Monaco alle 15:00 di domenica (undici ore e mezza di volo, nove di fuso orario). Il tutto, ovviamente, senza chiudere occhio, dal momento che Lufthansa non era Emirates all’andata e continua a non essere Emirates nemmeno al ritorno, e praticamente a digiuno, perché rifiuto l’offerta dei ravioli tedeschi, visto che devo ancora digerire quelli dell’andata. In poche parole: la voglia di allungare ulteriormente questo viaggio è più o meno quella che ha Christian Horner di prendere un caffè con Toto Wolff.
Quindi, approssimandosi l’atterraggio in Baviera e guardando con un filo di preoccupazione l’orologio che galoppa inesorabile, chiedo lumi sulla mia coincidenza all’allampanata e apatica hostess che mi sta servendo il sedicesimo caffè del volo. Nonostante legga sul suo volto la stessa voglia di vivere di Virginia Woolf, spero segretamente in un suo guizzo di attivismo e di vitalità e soprattutto spero in una rassicurazione del tipo “Be’ ma se si tratta solo di una manciata di minuti, sono certa che il comandante la aspetterà, in fondo lo sanno che è prenotato su quel volo e che arriva da un intercontinentale”. Per tutta risposta mi arriva invece un “You’d better run” (“Ti conviene correre”). Le capacità di problem-solving delle hostess di Lufthansa farebbero impallidire il tarantiniano signor Wolf. OK, adesso la pianto con i lupi.
In ogni caso, quando l’Airbus tocca terra bavarese, ho un bonus di ben quaranta minuti rispetto al decollo, e tra l’altro a Monaco nevica e ci saranno sicuramente disagi e ritardi. Purtroppo, sono però seduto in fondo all’aeromobile ed essendo collegato direttamente al terminal con il finger, devo aspettare pazientemente che la gente davanti a me (con la lentezza e l’assenza di coordinazione che contraddistingue da sempre i passeggeri aerei in cui mi imbatto) recuperi il proprio bagaglio dalla cappelliera ed esca. Va anche detto che le distanze tra i terminal a Monaco non saranno quelle di Charles De Gaulle o di Dubai, ma si fanno rispettare; tuttavia sembra essere il mio giorno fortunato (vabbè, parliamone): non appena arrivo al binario della navetta, c’è uno shuttle lì pronto diretto al mio gate che sembra aspettarmi, mi infilo svelto e fiducioso, e recupero un filo di speranza.
Un ultimo ostacolo: il controllo passaporti. Vado sereno verso i lettori automatici ma lo scanner non me lo legge. Una volta. Eeeehp! Due Volte. Eeeehp! Mi guardo intorno. Tre volte. Eeeehp! La gente dietro di me comincia ad alzare il sopracciglio e aggrottare la fronte, come ai tempi delle cabine telefoniche quando il tipo davanti passava ore a sbaciucchiare la fidanzata lontana tramite cornetta. Rinuncio, vado verso il controllo standard. Coda. Molta coda. Codissima.
Faccio un bel respiro, occhi umidi, voce quasi rotta dal pianto: “Excuse me, I’m very sorry, but I have a connecting flight!”, mi fanno passare tutti. Quasi. A un passo dalla meta, una coppia non se la beve: “We have a connecting flight too”; entro in modalità Candy Candy: “But – singhiozzo – mine is in ten minutes”; “Go!”.
È fatta, mi dico, ho ancora quindici minuti di margine. Penso con grande intensità a Pietro Mennea, a Stefano Tilli, a Filippo Tortu, a Marcell Jacobs, cerco di dimenticare lo zaino sulle spalle, il fuso orario, il volo scomodo, cerco di dimenticare che per il mio metabolismo sono le 6 di mattina dopo una notte insonne. Accelero, accelero, come alla fine di un fartlek a spinning e finalmente arrivo ansimante davanti al gate. Deserto.
«Mailand?» chiede gentilmente lo steward come se ci fossero alternative.
«Ja…», sospiro.
«Closed», spalanca le braccia sconsolato.
Crollo per terra mentre cerco di recuperare fiato. Mi rimetto in modalità Candy Candy singhiozzante.
«I did my best» gli spiego come per giustificarmi
«You did your very best – mi rassicura guardando l’orologio – but it was impossible.»
Già, perché a Monaco la nevicata si sta intensificando e tutti i voli hanno subito ritardi. Tutti tranne uno. Il mio.
Come ulteriore rassicurazione mi comunica di avermi già prenotato sul volo successivo, in partenza alle 18, e mi invita a procedere verso la lounge Lufthansa per ritirare la mia nuova carta di imbarco. Trascino verso il piano superiore lo zaino e le mie stanche membra, ormai completamente svuotate da ogni energia dopo che il rush di adrenalina si è esaurito, e mi metto tranquillamente in fila, pensando che tutto sommato mancano solo un paio d’ore al mio volo, si tratta di fermarmi a mangiare qualcosa e aspettare con pazienza. Certo, la neve preoccupa un po’, ma prima o poi ripartirò (e salirò, come direbbe Daniele Silvestri).
Arrivo al desk e spiego in inglese l’accaduto all’impiegato, dicendogli che dovrei già essere prenotato su questo nuovo volo delle 18.
«Sì, ma questo volo fa scalo a Francoforte.»
«Come, scusi?»
«Sì, sì, lei è prenotato sul Monaco – Francoforte delle 18 e poi sul Francoforte – Malpensa delle 20:20.»
«Questo non me l’hanno detto.»
In pratica sono a un’ora di volo da casa, ma a quanto pare devo prima fare il tour della Germania. Ottimo. Visualizzo nella mia mente il mio arrivo a Malpensa dopo le 22, quando non ci saranno più Malpensa Express e un taxi per raggiungere Milano e appoggiarmi a casa di mio fratello mi costerebbe come 13 giorni in California. Mi rimetto in modalità Candy Candy con una spruzzata di Elisa di Rivombrosa.
«Ma non c’è un volo diretto?»
L’impiegato, visibilmente commosso dai Gran Canyon che hanno preso il posto delle mie occhiaie, si mette al lavoro e se ne esce con «Linate?»
«Linate!!!»
«Linate parte tra mezzora – mi dice – sento se siamo in tempo.»
«Sì, Linate – quasi urlo – la valigia poi me la spedite o la vado a prendere in settimana. Però mandatemi a casa!»
Il solerte impiegato parla a lungo al telefono in tedesco con una solerte impiegata dall’altro capo del filo, alternando grandi sorrisi a “Ja ja, alles klar”. Il cuore mi si riempie di speranza. Il solerte impiegato posa il ricevitore.
«Troppo tardi.»
La mente si riempie di Pablo Escobar, la banda della Magliana, con un pizzico di Hannibal Lecter e del Demogorgone di Stranger Things, ma prima di farmi arrestare dalla polizia tedesca (storicamente non tenerissima), torno teneramente in modalità Rivombrosa, Candy Candy con un tocco di pascoli di Heidi, e pur evitando di sbattere gli occhioni davanti al solerte impiegato per conservare quel briciolo di dignità residuo, provo a darmi un contegno.
«Qualcos’altro?”
«C’è un altro volo per Francoforte un’ora prima: parte alle 17.»
«Sì, ma cosa mi cambia se tanto il volo per Malpensa è sempre alle 20:20?»
Ma sta ancora nevicando: meglio andar via alla svelta da qua. Ringrazio il dottore e accetto il cambio. Ancora non so che mi salverà la vita.
Già, perché una volta imbarcato (dopo essermi scofanato un sandwich gentilmente offerto da Lufthansa a parziale risarcimento del disagio arrecatomi) ci viene comunicato che a causa della neve dovremo aspettare un’ora abbondante sulla pista. Tutti gli aeromobili devono infatti sottoporsi a una procedura di sicurezza per evitare la formazione di ghiaccio sulle ali, e come in un’allegra catena di montaggio ci mettiamo tutti in fila a farci spruzzare non so cosa sulla carlinga. In altre parole, il decollo del volo delle 17 avviene in realtà alle 19, rimettendo in moto il contatore dell’ansia: l’atterraggio è previsto alle 19:40, quaranta minuti prima del Francoforte – Malpensa. Ci risiamo.
Se non altro a Francoforte non nevica e non siamo collegati al terminal 1 via finger, ma c’è un umile e veloce autobus. Atterriamo in area C, il mio volo per Malpensa parte dall’area A. L’autobus procede spedito: C 96, C81, C54, C12…. B! Non sembra intenzionato a fermarsi: B84, B63, B32, B7… A!
Devo partire da A22. Forza! Forza! Forza! A92, A74, A45, A26… eccoci! Manca quasi mezz’ora al decollo e sono a soli quattro gate dal mio imbarco, scendo dall’autobus e mi avvio serenamente dentro al terminal, ma la gente intorno a me comincia a correre, non so dove vadano, né su quale volo si debbano imbarcare, ma per il più classico dei riflessi condizionati comincio a correre anch’io e in un paio di minuti sono davanti all’A26 dove l’imbarco per Milano è appena iniziato.
Con un sospiro di sollievo, mi butto a sedere esausto sulla prima poltrona libera, estraggo il cellulare per comunicare ai miei compagni di avventura che ancora non so dove dormirò stanotte, ma per lo meno non sarà in Germania. Poi, giusto il tempo di salire a bordo e ricevere una tempestiva comunicazione via mail di Lufthansa che mi informa che, come era ampiamente prevedibile, la mia valigia è rimasta a terra, poi spengo il telefono e crollo in un sonno brevissimo ma intenso: un’ora di viaggio ma mi sembra di aver attraversato nuovamente l’Atlantico.
Sbarco leggero, forte del mio bagaglio da 23 chili rimasto su suolo germanico, e comincio a vagliare le possibilità. Come previsto, di Malpensa Express non c’è più nemmeno l’ombra: nonostante mio fratello sia in preallarme, l’idea di prendere un taxi fino a casa sua, e poi comunque ripartire domattina con una nuova sequenza composta da: metro fino a Centrale, treno fino a Fidenza / Parma, ulteriore taxi fino a casa, se proprio non voglio rompere le balle a qualche amico di domenica mattina, non mi sembra l’idea del secolo. Visto che ormai ho il dito posizionato perennemente sull’app di Uber, provo a vedere per curiosità quanto mi costerebbe, ma 500 euro mi sembrano eccessivi. Opto comunque per dormire a casa mia a tutti i costi: vado all’autonoleggio e mi dirigo baldanzoso all’Avis dove provo a commuovere l’addetto con un paio di battute, ma avendo egli il senso dell’umorismo del tipo che disegna le vignette sul Cucciolone, mi rimbalza senza pietà spiegandomi in tutta la sua milanesità che l’auto andava prenotata prima. E grazie al… a saperlo che sarei arrivato a Malpensa alle 23!
Ma per fortuna, per poco più di 200 euro, la Provvidenza per l’occasione logata Europcar mi assicura non esattamente una Chrysler Pacifica, ma un Pandino ibrido (dove ibrido credo stia per alimentazione a vento e pedali) che spingo sulla A1 a velocità mai sfiorate in precedenza (tipo i 120 all’ora) cercando contemporaneamente di tenere gli occhi aperti.
Alla fine ce la faccio: all’una di notte, esattamente 26 ore dopo la partenza dal Four Points di Los Angeles, varco la porta di casa, benedico la mia doccia, il mio bidet (il bidet!), il mio letto a due piazze completamente deserto e non appena sfioro il cuscino mi immergo in un sonno di tredici ore consecutive. Con teutonica efficienza, Lufthansa mi manda la buonanotte scrivendomi che domani arriverà la valigia, cos’altro posso desiderare dalla vita?