di Mattia Bragadini
Bye Bye Los Angeles
Come se fosse consapevole che oggi è giorno di relax, di passeggiate sulla spiaggia e di aperitivi al tramonto vista oceano, Los Angeles ci sveglia con il suo sole più brillante e il calore più intenso che possa garantire a inizio gennaio. Io, Giovanna e Samantha siamo i primi a scendere a colazione, “fortunati” intestatari delle tre autovetture che oggi dobbiamo restituire al car return della Sixt nei pressi dell’aeroporto.
Ora, per descrivere degnamente la sensazione che mi travolge occorrerebbe Hemingway, o almeno il mio adorato Michael Connelly, magari Baricco, per limitarci alle nostre migliori penne nazionali. Il vostro umile narratore non è in grado di dipanare su carta (o su schermo) il groviglio di emozioni che mi stringe lo stomaco nel realizzare che sta veramente finendo tutto. OK, abbiamo quest’ultimo giorno, spensierato, caldo e allegro, abbiamo un’altra serata da cercare di vivere fino in fondo, ma domani, alla spicciolata, ognuno prenderà il suo Uber per l’aeroporto, in base all’orario del proprio volo, e tutto questo sarà un ricordo. Stupendo, indimenticabile, pieno di bellezza, ma un ricordo.
A una parte di me sembra di essere arrivato appena ieri a San Francisco e che questi dodici giorni siano volati veloci come un assist no-look di LeBron James; un’altra parte di me ha invece la sensazione di essere qua da mesi, forse da sempre, ripensando alla quantità pazzesca di esperienze vissute e di luoghi visitati in così poco tempo. Di certo, per la prima volta nella mia vita, entrambe le parti di me vorrebbero stare qua, almeno ancora un po’. Amo viaggiare e amo tornare: dopo un po’ avverto l’esigenza di casa mia, dei miei amici, dei miei affetti, forse addirittura della noiosa routine quotidiana. Stavolta no: vorrei restare, perché ci sono altre decine di cose da vedere qui a Los Angeles e in tutta la California; perché ho paura che le splendide persone che ho conosciuto qui, una volta in Italia diventeranno solo un saluto veloce ogni tanto su WhatsApp; perché per la prima volta da quando ho iniziato a viaggiare da solo (Londra, 1987) qua mi sento a casa mia, non un turista, ma nemmeno un viaggiatore: I just belong here.
Tuttavia, è ancora presto per commuoverci, presto per gli abbracci e i saluti. In rigorosa fila indiana, Gio, Sam e io ci mettiamo pazientemente in coda al distributore di benzina low cost più vicino all’albergo (coda perfettamente giustificata dal prezzo abbondantemente sotto la media) e poi ci dirigiamo verso il Los Angeles International Airport, per gli amici, per il succitato Michael Connelly, per Miley Cyrus, e un po’ per chiunque semplicemente LAX.
Non posso negare che separarmi dalla Pacifica, fedele ed enorme compagna di viaggio, testimone di paesaggi spettacolari, di karaoke sgangherati, di risate straripanti, di dialoghi profondi, sia un momento commovente. Ancora più commovente l’improvviso ritrovamento non certo dei miei occhiali, ormai irrimediabilmente perduti, ma della mia T-shirt ricordo comprata al Joshua Tree Park, persasi nei meandri del monolocale chissà quanti giorni fa.
Di ritorno dall’autonoleggio, uberiamo la nostra strada verso l’albergo e decidiamo come occupare la mattinata, che il programma lascia libera fino all’appuntamento verso mezzogiorno al Santa Monica Pier. Io e Giovanna decidiamo, su sua imbeccata, di concederci una seconda colazione: dopo tutte le colazioni di vario tipo nei tanti alberghi, dopo aver saccheggiato decine di Starbucks, dopo l’immancabile brunch da IHOP, ci manca ancora una tipica colazione in un tipico diner, con i booth e i divanetti imbottiti, salse, zuccheri e spezie sul tavolo, e le cameriere che girano con le caraffe di caffè per fare i refill.
Una rapida ricognizione attraverso Google Maps e individuiamo il Dinah’s Family Restaurant su Sepulveda Boulevard, a due passi dall’albergo. Ora, questi due passi prevedono l’attraversamento pedonale di due viali a otto corsie ciascuno, la cui dinamica è tutta da inventare, dal momento che apparentemente non esiste una combinazione di semafori che ci consenta di effettuare la traversata con un livello accettabile di certezza che le auto siano ferme al rosso. Dobbiamo così inventarci uno scatto del miglior Usain Bolt, coadiuvato da un paio di Ave Maria, affinché le macchine che si sono appena fermate restino effettivamente ferme.
Le nostre preghiere vengono accolte dagli dèi della colazione e ci facciamo strada tra sorrisi accoglienti (da queste parti i camerieri prima ancora di chiederti cosa vuoi, ti chiedono come stai) e tavoli di arzilli pensionati che si godono la loro late breakfast delle 10:30. Dopo aver accarezzato l’idea di sederci al bar, notiamo un booth tranquillo e libero e ci infiliamo nei sopra citati divanetti, il menù è strepitoso e verrebbe voglia di prendere di tutto tra dolce e salato, ma calcolando le note porzioni americane e il fatto che siamo già alla seconda colazione, ci limitiamo a caffè, spremuta d’arancia e, ove possibile, mezze porzioni: pancake ripieni al cioccolato per me, french toast per Giovanna. Considerando che dei tre pancake che compongono la mia presunta mezza porzione uno lo mangio io, uno lo cedo a Giovanna in cambio di un mezzo french toast, e il terzo resta dov’è, mi viene spontaneo chiedermi chi avrebbe il coraggio di affrontare la porzione intera di sei pancake. Ma guardandomi intorno, invece…
Immortalato il momento e chiamati inutilmente i rinforzi per non cercare di non sprecare tutto questo ben di Dio che avanza (anche Gio si deve arrendere davanti alla burrosa consistenza – proporzionale alla bontà – dei suoi french toast), rientriamo verso l’albergo, rischiamo la vita una seconda volta, recuperiamo Marta e Melania che intravvediamo di sfuggita a passeggio fuori dall’hotel e raggiungiamo Santa Monica.
Ora, a qualcuno potrebbe venire il dubbio che la Santa Monica che abbiamo visto rappresentata in decine di film (ultimo in ordine di apparizione: Barbie) non sia esattamente quella reale. E invece sì. Oggi, 5 gennaio, siamo tutti in maniche corte a passeggiare lungo il Santa Monica Pier (quello che noi chiameremmo molo, ma detta così è un po’ più cool), a comprare souvenir sulle decine di negozietti e bancarelle che lo costeggiano, a farci foto sotto il cartello che indica molto iconicamente (tiè!) la fine della storica Route 66, a scambiarci inquadrature intense mentre scrutiamo l’oceano, che poi diventeranno foto profilo nonostante la diffidenza dei soggetti immortalati (vero, Sam?), a respirare un orizzonte di bellezza a perdita d’occhio, che parte alla nostra destra dalle Santa Monica Mountains sopra Malibu più a nord, e che abbracciando miglia e miglia di oceano e di spiagge sterminate si perde ben oltre Venice Beach, fino quasi a Marina Del Rey. Da togliere il fiato.
Dentro questo orizzonte, c’è esattamente tutto quello che ci aspetteremmo di trovare. I tipici murales davanti ai quali Melania perde completamente la testa; un carnevale di colori, suoni, artisti di strada, negozietti tipici e profumi da ristoranti di varie etnie e vari sapori; l’immancabile ruota panoramica di Pacific Park; le torrette dei bagnini rese celebri da Baywatch; un numero incalcolabile di campi da beach volley, allineati quattro alla volta sulla spiaggia così incredibilmente larga e che proseguono per miglia e miglia.
Ancora, i forzati del jogging a torso nudo o in reggiseni sportivi che esibiscono addominali scolpiti; gli scavezzacolli sui rollerblades, pali e corde da tessuti aerei (dove Sam ci regala un saggio dell’ennesimo suo talento); i ciclisti sullo Strand; i campetti da basket; uno degli skate park più grandi e frequentati del mondo; la parata di esplosioni muscolari a Muscle Beach.
Davanti a tutto questo fitness, Stefano, Sam, Ben e io decidiamo di affogare i dispiaceri con una fetta di cheesecake da Cheesecake Factory, giusto per completare la sequenza di tappe tipiche e obbligatorie. Io, reduce da due colazioni di spessore, preferisco restare a osservare ma anche la sola esperienza visiva, in quel luogo di pura perdizione calorica, merita comunque una visita.
Ma è quasi ora del nostro aperitivo di commiato, ahimè, a Venice Beach e quindi ci ributtiamo tra le luci e i colori di Ocean Front Walk, non senza qualche digressione sulla spiaggia a fotografare l’oceano, gli skaters, il sole che cala tra le palme e lentamente si prepara a tuffarsi nel Pacifico per uno degli spettacoli più emozionanti di sempre. E quando è ormai il tramonto, è il momento di salire al rooftop dell’Hotel Erwin, che Samantha ha scelto come teatro del nostro aperitivo, per godersi questo spettacolo impagabile con un drink in mano. Poco importa che l’ormai ben nota escursione termica ci faccia mettere mano quasi immediatamente ai piumini, finora conservati gelosamente negli zaini, e che l’aria sia davvero frizzante: tra poche ore saremo di nuovo dall’altra parte dell’oceano e invece ora siamo ancora qua a brindare con gioia e un pizzico di nostalgia alla conclusione di questo viaggio pazzesco.
E la serata ovviamente non finisce qua. Mi occupo personalmente di individuare un paio di ristoranti per la nostra ultima cena e la scelta del gruppo cade su Willie Mae’s. Le esperienze local le abbiamo provate tutte (a parte giusto In-n-Out che ha respinto con perdite il nostro tentativo di drive-through a piedi), manca solo “il pollo fritto di Green Book” come direbbe la nostra Ben, ed eccoci qua ad assaggiare questa tipica prelibatezza in perfetto stile New Orleans (quindi non il Kentucky di KFC ma la nobilissima Louisiana).
Avendo, all’ultimo giorno, finalmente imparato la lezione, decidiamo di prendere il Family Meal che contiene un’intera batteria di polli di dimensioni evidentemente non normali, e una profusione di contorni che vanno dal mac & cheese (i popolarissimi maccheroncini al formaggio), ai fagioli con riso, dai corn bread (piccoli muffin di farina di mais) alle potato wedges. Dovrebbe essere una porzione per quattro persone, ci mangiamo in sette (otto con Benedetta, che con un paio di margarita dell’aperitivo che le ballano la macarena nello stomaco preferirebbe soprassedere, ma davanti al pollo fritto e ai mac & cheese non resiste) e ne avanza pure per un homeless a cui io e Ben allunghiamo una doggy bag, che lui accetta tutto felice, appena usciamo dal locale. In sintesi, spendiamo poco più di dieci dollari a testa: ci abbiamo messo dodici giorni ma alla fine abbiamo capito come si fa.
Ma è l’ultima sera a Los Angeles e il gruppo dei nottambuli non vuole certo finirla qua. Zainetti ancora alla mano, io, Sam, Ben e Stefano salutiamo gli altri diretti in albergo e prendiamo un Uber per tornare sul Sunset Strip come ieri sera: il Viper Room ieri sera era chiuso, ma al venerdì la serata c’è eccome. Ed eccoci qua a contrattare con la scorbutica gestrice, che dopo aver constatato che non abbiamo biglietti presi in prevendita e dopo aver lanciato un’occhiata dubbiosa ai nostri zainetti, ci colloca come primi della fila denominata “Hope and pray” (che noi tradurremmo banalmente “aspetta e spera”) alla destra dell’ingresso del locale. Attesa che non si rivela vana, così che dopo un’altra serie di raccomandazioni, controlli degli zaini (abbiamo evidentemente la faccia da spacciatori…) e occhiate severe siamo finalmente dentro.
La situazione all’interno è che la serata si rivela essere una festa emo, con musica a tema prevalentemente anni ’90 e primi 2000, di cui io ignoro il 90 % dei pezzi, mentre Samantha si scatena urlando più volte il suo mantra “Le basiiii”. Stefano come sempre evita di manifestare emozioni di qualunque tipo, come apprezzamento o rigetto; io e Ben siamo schiacciati dalla calca contro il bancone, da dove le ordino un Long Island Ice Tea, che dovrebbe fare amicizia con i margarita già presenti da tempo nel suo stomaco. Io cerco di sistemarmi lo zaino tra le gambe per evitare di recare troppo fastidio e in pratica resto impalato come uno stoccafisso, proprio come successe per ore al famoso concerto degli U2 a Campo Volo del 1997. Quando Benedetta mi propone di uscire a prendere una boccata d’aria e riesco finalmente a muovere le gambe, mi sembra di rinascere. Presto ci raggiungono anche Samantha e Stefano ormai oppressi a loro volta dalla folla, e di comune accordo decretiamo la fine della serata.
Serata che potrebbe in realtà terminare con un ricordo letteralmente indelebile: Samantha ha individuato già ieri sera un tatuatore aperto 24 ore su 24 proprio sullo Strip, a due passi da noi. Preso dall’entusiasmo mi accodo e penso che non ci sia modo migliore di concludere questa esperienza pazzesca di lasciare un marchio permanente sulla pelle. Sam vorrebbe un ricordo legato al Joshua Tree (e quindi agli U2), io vorrei invece tatuarmi quello che è diventato il mio mood negli ultimi mesi: un bell’Hold on sul polso, citando ancora una volta i Pinguini Tattici Nucleari.
Ma davanti al negozio del tatuatore, percepisco vibrazioni negative (o, tradotto in termini un po’ meno trascendenti, vedo un paio di facce poco rassicuranti) e mi tiro indietro. La mia mossa mette in allerta Samantha, che di colpo a sua volta non si fida più; e nonostante i miei tentativi di rassicurarla e convincerla a seguire le sue sensazioni e non le mie, rinuncia a sua volta. Oltre che per recuperare i miei occhiali, bisognerà tornare a Los Angeles anche per fare questo benedetto tatuaggio. Così uberiamo nuovamente verso l’albergo per quella che, purtroppo, è davvero la nostra ultima notte californiana.
Per molti ma non per tutti. Perché il gruppo Ita Airways con destinazione Fiumicino (Giorgio, Stefano, Alina e Benedetta), grazie al prezioso contributo della nostra compagnia di bandiera, ha vinto un giorno di permanenza ulteriore, essendo stato cancellato il volo di rientro e posticipato al giorno dopo. Dopo aver valutato una serie di attività collaterali con cui riempire questo buco (da una scappata a Las Vegas in giornata, fino a un prolungamento del viaggio via Miami), la mattina del nostro ultimo giorno ci salutano con baci e abbracci e si “accontentano” di una scappata a Malibu, dove festeggeranno il compleanno di Alina.
Io, Samantha e Melania facciamo un’ultima scappata downtown a visitare, almeno dall’esterno, il Los Angeles County Museum of Art e le caratteristiche Urban Light, e a lanciare una breve occhiata all’Academy Museum of Motion Pictures, in sintesi un “museo degli Oscar”. Poi dopo l’ultimo ottimo brunch in una deliziosa cafeteria lì vicino, riguadagniamo l’albergo e, valigie alla mano, ci dirigiamo verso i nostri terminal. Io e Samantha riusciamo a raggiungere Giovanna, che è già in aeroporto ma ha il volo in ritardo, per un ultimo caffè insieme: entrambe fanno scalo a Parigi per poi dirigersi rispettivamente su Valencia e Firenze. In seguito mi unisco al gruppo “lombardo” (Marta e Melania), che vola su Linate via Londra e che ha il gate vicino al mio; consumo l’ultimo pasto vagamente tex-mex e dopo aver salutato le mie compagne di viaggio, mi ritrovo ufficialmente solo, in attesa del mio volo Lufthansa per Monaco di Baviera, che ovviamente è già in ritardo di un’ora prima ancora di partire.
La sensazione di malinconia che inevitabilmente mi avvolge nel realizzare che sta veramente finendo tutto è compensata dalla consapevolezza di avere appena vissuto il viaggio più bello della mia vita. E per quanto per la prima volta avrei voluto restare altri giorni, forse addirittura altre settimane, e l’idea di tornare a casa mi deprima, mi ripeto un concetto banale ma mai vero quanto oggi: meglio partire e tornare che non partire affatto.
Ah! E se qualcuno si stesse chiedendo da dove viene il titolo di questo diario, la risposta è qua:
I left my soul
On Californian soil And I left my pride With that woman by my side I never had a willing hand And I never had a plan But I’m glad I found you here But I’m glad I’ve got you here