di Mattia Bragadini
Cinema e musica: la Los Angeles artistica
Tra i tanti aspetti positivi di Los Angeles c’è, evidentemente, anche quello rilassante. Sembra un po’ una contraddizione in una città così caotica e piena di vita; tuttavia, sarà stata la consueta levataccia mattutina (non dimentichiamoci che solo ieri mattina eravamo ancora a San Diego), sarà stato il surplus di attenzione nel guidare tra otto corsie in mezzo al diluvio, la fatica del trekking fino all’osservatorio, il picco di adrenalina per tutta la meraviglia vissuta nel corso del pomeriggio, culminato alla partita dei Lakers e poi finalmente ridisceso, fatto sta che dopo nove notti praticamente insonni, finalmente sono crollato.
In un modo anche piuttosto pittoresco dal momento che l’ultimo ricordo che ho di ieri sera sono io che mi tolgo il bite per i denti per sistemarlo meglio in bocca; dopo di che sveglio stamattina con un braccio fuori dal letto e il bite beatamente steso sul pavimento. Va anche detto, dando a Cesare quel che è di Cesare e a Matty quel che è di Matty, che a quanto mi raccontano Giorgio e Stefano nel corso della notte anch’io ho azionato la mia personalissima motosega, della quale peraltro avevo avvisato per tempo i miei ignari compagni di viaggio, raccomandandomi di dotarsi di tappi per le orecchie o adeguate protezioni acustiche. Felice di constatare che il mio accorato appello non si sia rivelato inutile.
Comunque, dopo un’ottima e abbondante colazione al nostro delizioso Four Points, oggi recuperiamo le due Tiguan (la Pacifica giace ormai da ieri abbandonata nel parcheggio dell’hotel, causa dimensioni esagerate e assenza di bagagli da trasportare) e ci dirigiamo verso gli Universal Studios. Un’esperienza non proprio facilissima da spiegare, ma ci proverò ugualmente. Non si tratta, solo, di visitare i set dove sono state girate alcune sequenze leggendarie tratte da film o serie TV; non si tratta, solo, di entrare in un gigantesco luna park con attrazioni a tema ovviamente hollywoodiano; non si tratta, solo, di farsi rapinare centinaia di dollari in gadget nei negozi legati alle varie attrazioni, o in qualunque posto si voglia mangiare o bere qualcosa, o ancora negli store di tutti i tipi che fiancheggiano astutamente l’enorme viale che conduce dal parcheggio all’ingresso del parco. È tutto questo insieme e anche qualcosa di più.
C’è da dire che l’aria fresca che ieri sera ci ha accompagnati fuori dalla Crypto.Com Arena rende il clima poco californiano anche oggi e i nostri piumini da 180 grammi hanno un loro perché. Me ne accorgo quando, avendo sotto il piumino la mia T-shirt di Mookie Betts (quasi come se me lo aspettassi), me lo tolgo giusto il tempo necessario per scattare una foto davanti alla clubhouse dei Dodgers, che poi è un banalissimo megastore che mi appunto mentalmente dovrò visitare, e saccheggiare, sulla via del ritorno.
Per quanto, adeguatamente vestiti, si stia tutto sommato abbastanza bene all’aperto, non è però certo il caso di bagnarsi come se fossimo a Gardaland in agosto. Per cui stupisce abbastanza che quando ci accomodiamo in tribuna per assistere a uno spettacolo ispirato a Waterworld ci siano persone, e soptrattutto bambini, che si siedono di proposito nei posti in cui molto opportunamente viene segnalato il rischio di “essere bagnati nel corso dello spettacolo”. Poi, con la coscienza a posto per aver dato questo avvertimento, nel preshow gli attori si divertono a innaffiare di proposito con abbondanti secchiate gli innocenti infanti, che dal canto loro ridono senza fare una piega, come peraltro ridono sereni i loro genitori, a quanto pare leggermente meno apprensivi e protettivi di quelli italici. Io mi sarei fatto ricoverare con una polmonite doppia, ma vabbè. Altra tempra.
Lo spettacolo è una delle cose più americane che si possa immaginare. Il messaggio di fondo dell’intero show è la lotta al fumo (dentro al perimetro del parco non si può accendere mezza sigaretta nemmeno all’aperto) e infatti i cattivi della situazione non sono i pirati ma i fumatori (vabbè…). A prescindere da questo, lo spettacolo si concretizza in venti minuti di scariche di adrenalina. Un infinito piano sequenza di un film di azione, tutto interpretato dal vivo e con piglio teatrale da un gruppo di stuntman che regala divertimento puro con tanto di acrobazie con le moto d’acqua, esplosioni, tuffi da altezze vertiginose, combattimenti corpo a corpo e tutto quello che vi aspettereste da un film di Michael Bay. Quando poi si palesa un vero aeroplano che si schianta sul fondo della piscina, realizziamo di averle viste veramente tutte nella vita. “Ma quanto sono americani questi americani?” commenta opportunamente Giorgio.
Una robetta che a occhio deve costare qualche decina di migliaia di dollari per ogni spettacolo, che si tiene tutti i giorni ad ogni ora. Per dire quanto la Universal ci guadagna con questo giochino.
Proseguendo il tour ci troviamo ben presto nella Springfield dei Simpson, tra i chioschi di ciambelle tanto cari a Homer, la centrale nucleare e l’ufficio postale, il negozio di gadget e l’immancabile ottovolante a tema. Ma andiamo oltre perché da bravi appassionati di cinema è ora di mettersi in coda per il treno che ci accompagnerà nel tour guidato degli studios e sui set più famosi delle produzioni Universal.
L’attesa è piuttosto gravosa, ma la inganniamo chiacchierando amabilmente tra noi, percorrendo a passo d’uomo questo enorme serpentone che si snoda passando davanti ai manifesti e alle locandine dei più grandi successi prodotti dalla Universal negli ultimi 70 anni. Io mi soffermo su un paio di capolavori che hanno segnato la mia cultura (?) cinematografica e sportiva: The Breakfast Club (un caposaldo degli anni 80 come magistralmente descrive Bret Easton Ellis in Bianco) e Field of Dreams (in italiano L’uomo dei sogni), uno dei più bei film sul baseball mai prodotti.
Non appena parte il tour, comunque, ci rendiamo conto che l’attesa è stata ben spesa: dopo un primo passaggio in cui ci viene parzialmente svelata la magia del cinema, dove gli esterni di città come New York o quelli di interi quartieri residenziali, o di edifici d’epoca vengono riprodotti su finte facciate all’interno di set cinematografici, che poi grazie al sapiente gioco di luci dei direttori della fotografia e allo studio delle inquadrature dei maestri della regia diventano più veri del vero. Alcuni edifici sono invece parzialmente veri, arredati, con muri reali, a cui spesso manca una dimensione; avete presente quelle sequenze in cui la macchina presa passa da una stanza all’altra di un appartamento come se non ci fossero le pareti? Ecco, la parete non c’è davvero.
Ma poi, dopo la visita a set generici, entriamo nel vivo dell’esperienza scoprendo il mondo degli effetti speciali, per esempio come viene creata la pioggia, più o meno intensa, poi arricchita da un temporale con tuoni e fulmini, e infine completata da una vera alluvione. E ancora il set de Lo Squalo; la leggendaria Wisteria Lane, la strada fiancheggiata da impeccabili villette, nel quartiere residenziale di Desperate Housewives; il celeberrimo Bates Motel di Psycho, da dove esce un sosia di Anthony Perkins / Norman Bates con tanto di coltello che si avvicina minaccioso proprio al nostro lato del treno per l’urlo di terrore di una distratta Melania.
Registrato in video (e soprattutto in audio) lo spavento della povera Mel, è già ora di rientrare alla base e proseguire il nostro viaggio attraverso le pietre miliari di Hollywood. Ora, io non sono esattamente un fan di Harry Potter e della sua saga (chi mi conosce sa che il genere fantasy non mi appartiene proprio) per cui l’ennesima coda infinita per accedere al castello di Hogwarts non mi entusiasma granché. È anche vero mentre ci avviciniamo all’ingresso dell’attrazione principale, per la quale dovrebbe valere la pena di affrontare questa attesa interminabile, lo spettacolo per i fan del maghetto è impareggiabile: siamo dentro una ricostruzione perfetta della scuola di magia più famosa del mondo, con i ritratti che parlano e una collezione di personaggi e riferimenti al film che a me, profano, purtroppo sfuggono, ma agli occhi degli appassionati avrebbero fatto sognare. E poi arriviamo finalmente a questa famosa attrazione, Harry Potter and the Forbidden Journey, che non saprei nemmeno come definire.
La descrizione più fedele che mi viene in mente è quella di un incredibile mix tra un rollercoaster e un simulatore di volo, con in più l’intero universo di Harry Potter proiettato a 360 gradi intorno a noi, in modo da avere la nitida, nettissima sensazione di essere in volo insieme a lui sulla sua scopa, sopra Hogwarts, in fuga dai nemici, tra colline, fiumi, mari e dentro caverne e mondi sotterranei. Io e Samantha, la mia compagna di volo, scendiamo da questo stupefacente ottovolante con il cuore a tempo di dance anni ’90 e gli organi interni disposti a casaccio, dopo aver ricevuto un’ulteriore scarica di adrenalina quando la giostra a un certo punto si ferma, e dalla voce in lontananza in inglese non si capisce se lo stop faccia parte dell’esperienza o sia un arresto di emergenza. Temo la seconda, ma siamo comunque qui a parlarne. Quindi bene così.
Ridendo e scherzando, usciamo dal Wizarding World of Harry Potter a sole ormai tramontato, realizziamo che ancora non abbiamo ancora pranzato (e saranno quasi le sei di sera) e Benedetta, che ha esaurito le sue scorte di snack tappabuchi, potrebbe pure uccidere qualcuno per la fame. Ma non solo lei. Ci infiliamo in fretta e furia in un diner per mettere qualcosa sotto i denti: scartato un affollato e complicato self-service, finiamo al Mel’s Diner (davanti alla cui insegna Melania giustamente reclama una foto) e ci buttiamo su un superclassico hamburger e patatine.
A tavola, notando un’espressione poco convinta sul volto di Stefano, Melania si rivolge a lui.
“Com’è il tuo panino, Stefano?”
“Ma ‘nsomma…”
“Quale hai scelto?”
“Il Beyond BBQ Cheeseburger.”
“Ah ma non hai visto che è quello vegano?”
“Ah ecco. Me pareva che c’avesse ‘n sapore un po’ strano. Mortacci sua”.
Così.
Dopo una tappa allo store dei Dodgers, che cerco di risolvere il più velocemente possibile pensando si tratti solo di un mio sfizio ,ma poi in breve tempo mi accorgo di avere dietro a me tutto il gruppo, che sta letteralmente saccheggiando il negozio portando a casa ogni tipo di gadget, ci dirigiamo al parcheggio, pronti a rientrare in albergo per riposare dopo una giornata bellissima ma stancante.
Ma sono solo le 19:30, siamo a Los Angeles, è l’ultima sera in cui disponiamo delle auto. Ed è qui che dall’alto mi arriva un’illuminazione, mentre mappe alla mano controllo la nostra posizione, già in auto con Giovanna, Marta e Samantha.
“Raga, magari è una cazzata, ma io la dico lo stesso… siamo a mezz’ora da Beverly Hills, finché abbiamo le macchine perché non facciamo un giro a Rodeo Drive e a vedere qualche villa? Se torniamo in albergo la sera muore lì…”
“Sì dai! Figata! Andiamo!”
Non era una cazzata.
Breve consulto telefonico con l’equipaggio dell’altra auto guidata da Giorgio e si parte.
Dopo un giro tra le clamorose ville dei VIP (o presunti tali) allineate nel più famoso quartiere residenziale del mondo, compreso tra Santa Monica e Sunset Boulevard, finalmente saliamo a Rodeo Drive. L’idea è di effettuare un breve passaggio in auto ad ammirare le lussuose vetrine del Walk Of Style, gli alberghi e i ristoranti griffati con conti a troppi zero per noi. Anche perché non possiamo nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi di parcheggiare per qualche minuto, perché nel momento in cui ci avvicinassimo a un marciapiede, un solerte addetto del valet parking ci requisirebbe l’auto per parcheggiarla in qualche a noi invisibile parcheggio, probabilmente sottoterra, tra le viscere di queste boutique esclusive.
Gira e rigira finiamo sul Sunset Strip, il tratto dello sconfinato Sunset Boulevard (35 chilometri totali) che attraversa West Hollywood a nord di Beverly Hills e che ospita la maggior parte della vita notturna losangelina. Ed è qui che ci appare in tutta la sua scintillante coloratura l’insegna del Whisky a Go-Go, uno dei locali più famosi di Los Angeles. Vogliamo dire iconici?
Il gruppo dei nottambuli musicofili, capitanato da me e Samantha, ovviamente vorrebbe entrare. Ben come sempre è dei nostri, Stefano ha diverse serate da recuperare per colpa di Alfredo (non quello di Vasco, quello delle fettuccine), Giovanna ci garantisce la sua guida sicura sulla strada del ritorno. Dopo trattative serrate con l’altra macchina, che alla fine raccoglie i quattro che preferiscono rientrare in albergo, e dopo qualche incomprensione per trovare parcheggio, ci presentiamo al botteghino: stasera c’è un concerto (wow!) e quindi c’è un biglietto che costa 20 dollari (e che sarà mai?).
Ora, se fossimo in una discoteca milanese, le ragazze entrerebbero ovviamente senza problemi, ma Stefano ed io (soprattutto io che sono sempre in tenuta Dodgers con cappellino in testa e T-shirt di Betts) saremmo respinti a calci dal door selector, dopo un’intera giornata agli studi Universal, senza cambiarsi, senza farsi una doccia, sfatti e infreddoliti.
Invece entriamo anche noi maschietti, perfettamente integrati con i local che se ne fottono allegramente degli outfit, figuriamoci in un locale rock, saliamo al piano di sopra per il primo giro di drink e intanto ascoltiamo i primi gruppi che si esibiscono con un sano e graffiante rock’n roll; comincio a curiosare sul sito del locale per vedere cosa prevede la serata e quando leggo chi saranno gli headliner mi si apre un sorriso sulla bocca.
Quando finalmente salgono questi apparentemente sconosciuti Hookers & Blow, vedo Samantha sgranare gli occhi, poi cominciare a pistolare sul telefono, scrutare il palco, guardare me, riguardare il telefono, riscrutare il palco e ancora me.
“Ma, Matty…”
“Dimmi”, sorrido.
“Ma è lui?”
“Lui chi?”
“Ma è Dizzy Reed?”
“Be’ sì – le mostro il telefono con la locandina dell’evento – headliner: Hookers & Blow featuring Dizzy Reed of Guns N’ Roses.”
“E non mi dicevi nulla???”
E in un attimo siamo giù fronte palco, a guardare da un metro il tastierista dei Guns N’ Roses, membro della band dal 1991 cioè dai tempi di Use Your Illusion, che in uno stadio italiano avremmo visto col binocolo per 120 euro. Ok, non c’è Axl Rose, non c’è Slash, e se nei Guns suona le tastiere ma non canta, un motivo ci sarà. Ma quando attacca Don’t cry, On in a million e altre megahit rock come Saturday night’s alright for fighting o Sympathy for the devil, il locale impazzisce e noi cantiamo e balliamo insieme ai local.
Ce ne andiamo a concerto finito ben dopo la mezzanotte, con buona pace di Stefano, convinto che il posto chiudesse alle 23, come la maggior parte dei locali. Lo consoliamo con una puntatina in uno di quei market aperti 24 ore su 24 dove troviamo qualcosa da bere e, soprattutto, da mangiare. Poi le sapienti mani di Giovanna ci riportano fino al nostro Four Points, domani mattina abbiamo una nuova sveglia: è ora di salutare le nostre imprescindibili compagne di avventura e andarle a restituire. Ma che giornata è stata, oggi?