di Mattia Bragadini
Da San Diego a Los Angeles
Anche la prima notte a San Diego vola via “serena” un po’ come le altre: Stefano sul suo King Size, disteso a quattro di spade in una plastica anche se non molto somigliante imitazione dell’uomo vitruviano, che sottolinea in audio la sua innata capacità di addormentarsi in no time. Io e Giorgio, ormai rassegnati a condividere l’altro King Size, che abbiamo raggiunto una sorta di accordo di massima sul nostro ménage matrimoniale, con tanto di separazione ormai consolidata tra il lato destro, di mia competenza, e il suo lato sinistro.
Tuttavia, nonostante le dimensioni finalmente accettabili del letto, mi trovo un paio di volte un braccio del mio amico siciliano dalle parti delle mie spalle e, nonostante il sincero affetto che ci lega, la cosa mi genera un minimo di ansia. Cosa ci volete fare? Sono all’antica.
Nel dubbio, essendo ormai quasi le sei (tardissimo per i miei nuovi standard californiani), sgattaiolo in doccia e buttando un mezzo occhio fuori dalla finestra per non svegliare gli altri, noto un sole radioso, raggiante, rassicurante, riscaldante e molti altri aggettivi con la R. Scelgo allora l’azzardo e scendo a colazione, come sempre per primo, in T-shirt e bermuda, se non altro per dare un senso all’idea di averli messi in valigia.
Raggiunto alla spicciolata dai miei ormai ex sconosciuti compagni di viaggio, ci intratteniamo in chiacchiere fino all’ora convenuta per il nostro trasferimento sulla portaerei USS Midway, oggi diventata un museo, che si trova all’ancora al molo 2 del porto di San Diego, a pochi passi dal nostro hotel. Prima di salire in camera a prepararmi, metto un piede fuori dalla porta dell’albergo e devo constatare con amarezza che non è ancora tempo di bermuda. Tuttavia, resto convinto che nel giro di un paio d’ore il sole ci scalderà abbastanza da restare in T-shirt, per cui mantengo un outfit sportivo in total Adidas, manco avessi un contratto di sponsorizzazione in corso. Ok, la casacca blu scuro sopra gli sweatpants neri è un pugno in un occhio, ma conto di liberarmene presto.
Ben prima di partire, la nostra ottima Sam aveva condiviso sul gruppo WhatsApp vari sondaggi dedicati alle attività collaterali, quelle non già previste dal programma di WeRoad, ma da decidere insieme. A San Diego le opzioni erano il Balboa Park e il USS Midway Museum; ora, non sapremo mai cosa ci siamo persi al Balboa Park (a quanto pare grandi e rinfrescanti spazi verdi, uno degli zoo più famosi al mondo e un paio di musei), ma nella casa di Top Gun, nella città che si autodefinisce orgogliosamente “il luogo di nascita dell’aviazione navale”, come si fa a non visitare una vera portaerei, in servizio dal 1945 al 1992? E infatti anche questa esperienza si rivelerà un’emozione incredibile.
La USS Midway è entrata in servizio dopo la Seconda Guerra Mondiale (protagonista in Corea, Vietnam e nella prima Guerra del Golfo) ma deve il suo nome a una celeberrima battaglia combattuta tra Stati Uniti e Giappone nel Pacifico proprio nel corso del conflitto mondiale. La battaglia delle Midway ebbe luogo circa sei mesi dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor, e nelle intenzioni nipponiche avrebbe dovuto sferrare il colpo di grazia alle forze statunitensi nel Pacifico. Invece le forze americane, nonostante fossero sottodimensionate rispetto ai giapponesi, ebbero la meglio; e in quei quattro giorni del giugno 1942 ribaltarono l’esito di una guerra che avrebbe potuto ridefinire la carta geografica del mondo. Anche grazie al sacrificio di numerosi giovanissimi piloti di caccia, ancora in fase di addestramento, a cui idealmente l’intero museo è dedicato.
Tutto questo è raccontato in uno splendido e toccante docufilm del 2015 intitolato Voices of Midway, che viene proiettato in loop nel Battle Of Midway Theater sul ponte inferiore della portaerei. Uno di quegli spettacoli di cui gli americani sono maestri, dove si mischiano fiction e testimonianze dirette, puro cinema e realtà immersiva in 3D, e soprattutto dove lo stomaco viene preso a pugni a ogni sequenza, mettendo a dura prova il canale lacrimale di uno come me, super sensibile alle emozioni. Le storie di quei ragazzi, l’invito del loro comandante a scrivere a casa prima di partire per la missione, la consapevolezza che la morte è molto più che un’ipotesi sono momenti di pura commozione, e anche in un luogo così, probabilmente la quintessenza di una cultura “muscolare” a stelle e strisce, arriva l’inevitabile chiosa che le guerre non portano mai nulla di buono. Nemmeno quelle che devono essere comunque vinte a tutti i costi.
Mi ci vuole qualche attimo per riprendermi dalla commozione, e mi devo isolare un momento per trovare il modo di ricompormi. Per fortuna cominciamo a muoverci nelle varie aree della portaerei, alleggerendo il clima, visitando le stanze dei soldati, la sala radio, il centro di controllo, il ponte di comando. Alina e Benedetta, poi seguite da Giorgio e Giovanna, si fanno convincere a provare il simulatore di volo che si rivela essere una specie di enorme centrifuga dalle quali escono con delle incredibili fotografie delle quali temo di non detenere i diritti di pubblicazione, e con le loro urla che ancora adesso risuonano nel cielo di San Diego.
Finalmente saliamo sul ponte superiore, da cui si gode di una spettacolare vista sulla città, sull’oceano e sull’iconica (eheheheheh…) statua Embracing Peace, che altro non è che una delle installazioni create in serie da Seward Johnson che si sono moltiplicate negli anni (per qualche tempo ce n’è stata una anche a Civitavecchia), e che riprendono la famosa fotografia di Alfred Eisenstaedt del bacio di Times Square tra il marinaio e la ragazza, diventata il simbolo della fine della guerra. Qui a San Diego l’installazione, alta oltre sette metri e mezzo come da stile e dimensioni americane, è diventata permanente, per la gioia delle coppie che si fanno ritrarre nella stessa posa davanti alla statua, e per quella di Melania che, una volta scesi a terra, darà sfogo come sempre alla sua creatività, davanti e dietro l’obiettivo.
Ma più di ogni altra cosa, gli oltre trecento metri del ponte superiore ci regalano un’incredibile esposizione di veri aerei da combattimento, su cui possiamo salire e su cui possiamo scattarci foto a vincenda e fingerci piloti Top Gun. A proposito, tutto qua al Midway Museum riporta al film: alcune scene del fortunato sequel Top Gun: Maverick sono state girate proprio qua, tra gli aerei che stiamo toccando da vicino ce ne sono alcuni che hanno effettivamente preso parte al film, la cui première, quasi ovviamente, ha avuto luogo proprio sulla portaerei il 4 maggio 2022.
Inutile dire che il giftshop del museo è pieno zeppo di souvenir, magliette e memorabilia vari legati a Top Gun; ancora più inutile dire che di tali souvenir abbiamo fatto incetta, con palma per la più coraggiosa ad Alina che si è comprata proprio il leggendario giubbotto che ha reso famoso Maverick in tutto il mondo. Solo qualche ora più tardi, devastato dall’invidia, il nostro Iceman-Giorgio tornerà a bordo corrompendo non so quanti addetti del museo per riguadagnare il negozio e comprare a sua volta il suo esemplare di bomber.
Dopo aver ripristinato la nostra tradizione di pranzare alle tre, in un elegantissimo e ottimo ristorante di pesce sul molo, e dopo aver accompagnato Giorgio nel suo raid alla caccia di giubbotti vintage, ci concediamo una passeggiata per San Diego tra lo splendido Waterfront baciato dal sole e illuminato da un incredibile cielo azzurro, che al tramonto regalerà uno spettacolo mozzafiato, e il quartiere storico (per quanto ci possa essere di storico da queste parti) denominato Gaslamp, dalle caratteristiche lampade a gas che lo decorano.
Io ne approfitto per onorare una promessa fatta insieme a Giovanna: avevamo deciso di prenderci un po’ di tempo per chiacchierare un po’, perché essendo due degli autisti designati non c’è mai modo di viaggiare insieme, e non condividendo nemmeno la stanza come con Giorgio le occasioni per conoscerci sono state veramente limitate. A San Diego ci prendiamo finalmente il nostro tempo per approfondire la nostra conoscenza e scopro una ragazza che al di là dell’infinita dolcezza e calma che trasmette in ogni suo gesto e parola, ha un carattere forte e indipendente, che si trasferisce senza battere ciglio a Brindisi o a Valencia per lavoro, appassionata di moda, arte e gourmet. Un’altra bellissima scoperta del nostro gruppo, prima ancora di diventare suo passeggero fisso per le strade di Los Angeles.
La sera, dopo esserci divisi tra gruppo relax in albergo e gruppo laundry (Alina e Giovanna viaggiano leggere e occorre fare un bucato), decidiamo di completare l’operazione Top Gun con una cena al Kansas City Barbeque, che fu teatro della famosa scena del bar nel primo film dell’86. Il pollo è quello che è, il juke-box dove ovviamente seleziono Great Balls Of Fire si sente a malapena, ma il locale è strapieno di poster, ricordi, memorabilia e oggetti legati al film. Insomma, la nostra tourist experience l’abbiamo fatta.
Il gruppo nottambuli, che stasera oltre a me, Stefano e Ben include anche Giorgio e Alina, vuole chiudere l’ultima sera a San Diego con un giro per locali, dal momento che ieri sera durante la ricerca spasmodica di cibo abbiamo notato qualche posto carino nella zona di Little Italy. Il pub che avevamo puntato, manco a dirlo, sta ormai chiudendo, ma con un paio di “Excuse me, sir” Giorgio si fa indicare il nome di un locale che tira avanti più a lungo fino a tarda notte. Si trova a meno di un miglio di cammino per cui approfittando della serata gradevole, procediamo alla ricerca di questo gin tonic dentro cui annegare la serata e salutare San Diego; una volta arrivato, come da copione nel locale ci imbattiamo in un ragazzo del posto con un trascorso in Italia, che inevitabilmente attacca bottone e ci sciorina tutte le volgarità che ha imparato nel Bel Paese, tra Firenze e la Liguria. Rispondiamo con un paio di fucking a caso, giusto per mantenere il livello della conversazione, ed esauriti i nostri drink, facciamo rotta verso l’hotel. Domani ci sono altre miglia, le ultime, da percorrere.
Il giorno dopo mi sveglio come sempre intorno alle sei, già in fibrillazione per l’imminente trasferimento a Los Angeles, a cui si aggiunge ulteriore fibrillazione per un messaggio ricevuto nella notte statunitense con un’interessante proposta di lavoro. Con tutta questa fibrillazione in corpo, decido quindi di uscire per la mia solita passeggiata mattutina andando a esplorare le strade di San Diego. In particolare, avendo individuato un Dunkin’ Donuts nei paraggi su segnalazione di Giovanna, decido di prendere una dozzina di ciambelle da portare ai miei compagni di viaggio per la sosta prevista lungo la strada, dove incontreremo i parenti di Marta.
Dopo una bella e corroborante passeggiata di poco più di un miglio, faccio quindi colazione con un delizioso donut ricoperto di cioccolato e il mio immancabile Latte e mi faccio preparare una scatola assortita con dentro tutte le glasse e i gusti possibili. Mentre consumo la mia ciambella al fresco della prima mattina fuori dal locale, mi si avvicina un homeless che mi chiede un dollaro, glielo allungo e gli offro un donut: sono dodici e noi siamo nove, mi sembra un gesto carino. Per tutta risposta lui osservando la scatola un po’ perplesso mi chiede se non ne ho una con lo sciroppo d’acero, poi si accontenta di una ciambella al cioccolato e ringrazia non troppo soddisfatto. Pure l’homeless schizzinoso mi tocca.
Rientro trionfante in albergo condividendo foto del mio gentile omaggio sul gruppo WhatsApp e scatenando l’entusiasmo dei miei compagni di viaggio e soprattutto quello dei residenti di San Diego. Avete presente quanti nuovi amici si conoscono camminando per San Diego con una scatola di Dunkin’ Donuts? Be’ tra battute, saluti, “Enjoy your donuts” e richieste scherzose (?) di un assaggio, mi sembrava davvero di essere a passeggio per Noceto invece che in una città sconosciuta della California. Sistemati i donut sulla Pacifica, sufficientemente distanti dalle grinfie di Benedetta e Stefano, finalmente facciamo strada verso LA.
Ho già avuto modo di raccontare le splendide emozioni, i brividi e la pelle d’oca che ho provato nel guidare verso Palm Springs e poi nel deserto, ma sulla highway tra San Diego e Los Angeles scopro anche il downside della guida in America. Otto corsie di traffico che si muovono tutto intorno (si può superare anche da destra), il limite di 65 miglia all’ora, l’intoccabile (in quanto a pagamento) fast lane, la carpool lane (che in teoria ci spetterebbe ma nel dubbio evitiamo), i segnali che non sono universali pittogrammi come in Europa ma scritte complesse (ovviamente in inglese), la corsia di destra che ti obbliga a prendere la prossima uscita. Vabbè, tutto sommato potrebbe andare peggio: potrebbe piovere. Ah no, in effetti piove.
Inganniamo la mia tensione come sempre con un po’ di musica: avendo scoperto l’ennesima passione in comune con Ben, sciorino una playlist di Cesare Cremonini che allieta il mio confermatissimo equipaggio fino allo Starbucks nei pressi di Irvine dove abbiamo appuntamento con gli zii di Marta e dove finalmente consumiamo i donut godendoci il sole che per fortuna è magicamente riapparso a metà strada. C’è da dire che la sportività di quelli di Starbucks ce li farebbe consumare anche dentro al locale, ma a noi basta un raggio di pallido sole per sentirci davvero in California. Un’altra oretta di strada e a pochi passi dallo svincolo di Culver City arriviamo infine al grande parcheggio del Four Points by Sheraton di Los Angeles Westside. Signore e signori, oggi 3 gennaio 2024, a 49 anni e 311 giorni, per la prima volta nella mia vita sono nell’incredibile e da sempre sognata Los Angeles. Non solo, questa sera a 49 anni, 311 giorni e qualche ora in più, andrò a vedere la mia prima partita di basket NBA dal vivo. Ma questo è già il prossimo capitolo.