di Mattia Bragadini
Da Palm Springs a San Diego
Non so, sarà l’adrenalina di Capodanno, sarà l’ebbrezza di trovarsi in quel luogo assurdo e magico nel quale è necessario assaporare ogni singolo momento senza stare a poltrire a letto, saranno le ultime scorie di jet-lag, sarà stato (sicuramente) arrivare in camera con Stefano e Giorgio già pesantemente addormentati con tutte le conseguenze del caso. Fatto sta che nonostante il rientro in albergo ben oltre la mezzanotte, ancora una volta mi ritrovo con gli abbaglianti accesi con grande anticipo rispetto all’alba. Dopo aver atteso un orario più o meno umano per buttarmi sotto la doccia, decido con una punta di rimpianto di saltare la colazione a bordo piscina e uscire a esplorare Palm Springs.
Il clima finalmente è quello che mi aspettavo in California: lascio in camera piumini leggeri e capi spalla e sopra la T-shirt metto solo la mia casacca Adidas giusto per proteggermi dalla prima brezza del mattino. Oggi è un giorno consacrato agli U2 (passione che condivido con Samantha): ho già inviato a tutti il mio augurio di buon anno postando New Year’s Day sulla chat di gruppo; l’intero album The Joshua Tree è ovviamente già pronto in attesa di essere collegato ai diffusori della Pacifica per fungere da colonna sonora alla traversata del parco, con buona pace dei miei passeggeri. Indosso la maglietta del tour del 2015, che riporta una frase, tratta da Song For Someone, scolpita nella mia mente e nel mio cuore: “There is a light, don’t let it go out”.
Muoversi per la città è tutt’altro che complicato: già attraversandola in auto per andare al The Village ieri sera mi sono reso conto che come il 90 % delle città americane è costituita da un enorme reticolo di viali che si incrociano ad angolo retto, in più il territorio non ha confini né limiti naturali, essendo letteralmente incastonato nel deserto.
Cammino allora deciso in direzione di Forever Marilyn che si trova a poco più di un miglio dall’albergo, incrocio diversi residenti che si sono svegliati di buon’ora per portare a spasso il cane e con la consueta cordialità californiana tutti hanno un “Good morning” e un “Happy new year” per me ai quali rispondo felice. Penso agli escursionisti che si scambiano i saluti lungo i sentieri di montagna e una volta in città si ignorano, persi nel grigiore della quotidianità. Forse il segreto dei californiani è sentirsi costantemente in vacanza. Soprattutto qua, in questo luogo incredibile dove non si capisce cosa la gente possa fare per vivere, se non aspettare le numerose stelle hollywoodiane che affolleranno il Film Festival che prenderà il via tra un paio di giorni: da Leo DiCaprio a Margot Robbie, da Mark Ruffalo a Emma Stone.
Noi non riusciremo a incontrarle: tra poche ore saremo di nuovo in viaggio, ma in compenso il paesaggio intorno a me è pazzesco. Il cielo è di un azzurro limpido, trasparente e incontaminato come dalle nostre parti si vede solo sulle Alpi sopra i 2000 metri; da un lato le alture che costeggiano la città, dall’altro il deserto a perdita d’occhio; in mezzo gli immensi viali che caratterizzano ogni città degli States, ma fiancheggiati da file infinite di palme. Sembra una Forte dei Marmi moltiplicata per dieci. Infatti, l’occhio scruta l’orizzonte in cerca del mare, perché davanti a un panorama così ci deve per forza essere il mare. E invece no: il mare, anzi l’oceano, è oltre 100 miglia più a ovest. Incredibile.
Arrivo davanti a Marilyn, che è molto più grande di quanto mi aspettassi, e dopo le foto di rito, complici due turisti che mi ricambiano il favore, passeggio per la plaza e il piccolo mall annesso. Vorrei portare la colazione ai miei compagni di viaggio ma a parte il solito Starbucks non trovo cafeterie o diner aperti dove comprare ciambelle o simili. Mi incammino allora di ritorno verso l’hotel seguendo un altro viale parallelo a quello dell’andata, con gli occhi ben attenti a intercettare eventuali locali aperti, ma evidentemente il Capodanno è piuttosto festivo anche da queste parti. Arrivato in albergo penso allora di prendermi un caffè a bordo piscina, ma l’orario della colazione è già passato; fa nulla, salgo in camera a recuperare la valigia già eccitatissimo per l’imminente visita al Joshua Tree Park, ma giustamente Stefano, che finalmente sembra aver sconfitto a colpi di dodici ore di sonno le infernali tagliatelle, esprime il desiderio di andare a vedere il monumento a Marilyn che ieri sera noi tutti ci siamo persi. Così dopo un breve conciliabolo nel parcheggio dell’albergo decidiamo di rallentare i ritmi, concederci un paio di ore di svago a Palm Springs, tornare al monumento, fare foto di gruppo, visitare le altre installazioni, sostare a prendere un caffè dal solito Starbucks. E allora a quel punto, avendo saltato tutte le colazioni possibili, mi lascio tentare da un nuovo Double-Chocolate Brownie ad accompagnare il consueto Latte.
Dopo lo spuntino, siamo finalmente pronti per fare strada verso il deserto vero; facciamo il pieno alle macchine perché attraversando il parco di distributori non ci sarà nemmeno l’ombra, e piano piano ci addentriamo in uno scenario che ad ogni miglio diventa più surreale. Il mio equipaggio è ormai consolidato: la Margot Robbie del Tirreno siede come sempre accanto a me, registra ogni mia emozione e scatta tutte le foto al posto mio; un recuperato e ritrovato Stefano osserva il tutto con il suo sguardo fanciullesco e stupito. Mentre scorre l’album The Joshua Tree, travolgo Benedetta e Stefano con un fiume di parole su questo capolavoro assoluto della musica, soffermandomi su alcuni dettagli, offrendo interpretazioni dei testi che questo luogo ha ispirato, commuovendomi alle note e alle parole di Running To Stand Still. A un certo punto Ben sentirà che è il momento giusto per ascoltare Ride di Lana Del Rey (cosa può essere più a tema guidando nel deserto?) e, dopo averla accontentata nonostante i problemi di connessione nel deserto, anche questo meraviglioso pezzone entrerà di diritto nella playlist californiana, insieme a tanti altri della cantautrice americana.
L’idea è di attraversare il parco da nord a sud e uscire dall’altro lato dove l’Interstate 10 ci porterà verso Indio, teatro del Coachella Festival, uno dei più noti al mondo, e da lì tuffarci a sud verso San Diego, nostra prossima tappa. Ci dirigiamo allora verso l’ingresso nord, in direzione 29 Palms, attraverso la Yucca Valley, che già ci regala un’idea di quello che ci aspetta.
Yucca brevifolia è infatti il nome scientifico della pianta caratteristica che dà il nome al parco, mentre il nome comune “Joshua Tree” sembra sia stato coniato da un gruppo di mormoni che attraversarono il deserto nella metà dell’Ottocento. A quanto si racconta, la peculiare forma di questo albero ricordava loro un passo della Bibbia, nel quale Mosè alzava le braccia al cielo per pregare e quando le sue braccia erano levate in alto Giosuè e il suo esercito vincevano.
Ma prima ancora di entrare nel parco vero e proprio, abbiamo già gli occhi pieni di immagini incredibili; all’ultimo punto di ristoro prima di svoltare a destra verso il Joshua Tree Park, lo scenario è già pazzesco: cieli blu e lande aride e sconfinate a perdita d’occhio. Compriamo qualche souvenir e soprattutto un simil-pranzo da asporto che consumeremo più avanti, io prendo un burrito gigante che avrebbero potuto chiamare “svuotafrigo” per tutto quello che conteneva, comprese delle patate lesse nel caso non fosse sufficientemente sostanzioso. Me lo servono bollente da uno scaldavivande e resterà tale fino alla prima sosta; d’altra parte, la temperatura è più che gradevole: finalmente, il 1° gennaio 2024 sono ufficialmente in maniche corte!
Pochi minuti di strada dopo il punto di ristoro e siamo all’effettivo ingresso del parco dove veniamo accolti da simpatici e sorridenti ranger, che ci danno il permesso di proseguire non prima di averci catturato 30 dollari a macchina. Samantha si raccomanda di restare vicini con le auto e ci dà appuntamento al primo punto panoramico, dove possiamo parcheggiare, scattare decine di foto e concederci un incredibile picnic nel deserto.
Il panorama toglie il fiato, la vastità del deserto, l’imponenza di alcuni di questi “alberi di Giosuè” che raggiungono altezze ragguardevoli, lo sguardo che fatica a contenere un orizzonte che letteralmente non conosce confini. Difficile catturare in video o in foto quanto sia incredibile trovarsi in un luogo così, letteralmente a due ore dalle megalopoli, dal traffico intasato nonostante le otto corsie, dal brulicare ininterrotto di vite e persone. Ci siamo noi, il silenzio, la natura più spoglia e forse proprio per questo più vera.
Ci proviamo comunque a immortalare questi momenti, con lunghe sequenze panoramiche, fotografie di gruppo, immagini artistiche. Io e Melania torniamo a scambiarci inquadrature ardite, cercando di fondere l’anima del luogo con le nostre emozioni, e quando il sole comincia a declinare lungo il confine delle montagne, la luce diventa irreale, tutto quel luogo diventa irreale. Brividi.
Nel frattempo, il panorama è già mutato: infatti il Joshua Tree Park, che per inciso è grande 3200 chilometri quadrati cioè esattamente come la Valle d’Aosta, si trova praticamente a cavallo di due deserti: la parte più alta in quota, dove si trovano le caratteristiche arborescenze, è parte del deserto del Mojave, mentre scendendo di quota e di latitudine si passa nel deserto del Colorado, dove il paesaggio è caratterizzato da cactus e sconfinate lande effettivamente desertiche. A incorniciare il tutto, le montagne di San Bernardino che profilano il confine sud-ovest del parco. Ed è proprio nella parte inferiore del parco che ci riempiamo gli occhi con uno dei tramonti più incredibili che possiamo mai aver immaginato nella vita.
Ma San Diego ci aspetta. E sono altre 150 miglia, quasi tre ore al netto del traffico e degli incidenti che invece si metteranno di mezzo a rallentarci ulteriormente. La stanchezza, la vigilia di Capodanno, le ore di guida cominciano a farsi sentire; perdiamo subito la macchina di Giorgio, Marta e Alina che scelgono una strada alternativa nel deserto, mentre noi restiamo sulle highway, spesso incolonnati se non fermi. Ma nonostante i rallentamenti, il viaggio, tra musica e chiacchiere, passa via leggero, con una sola breve pausa caffè al solito Starbucks.
Le emozioni, il deserto, il viaggio, la confidenza che si consolida, l’allegra gioia di Benedetta, la ritrovata verve di Stefano che finalmente ha risolto i suoi problemi gastroenterici… fatto sta che sulla Pacifica cominciamo ad abbassare le barriere, a raccontarci cose più profonde di noi stessi, a condividere sogni e aspirazioni, delusioni passate e scenari futuri. Ci conosciamo letteralmente da cinque giorni, ma sappiamo già tante cose di noi, forse il viaggio è davvero il mezzo più semplice e veloce per scoprire e apprezzare una persona.
Resta il fatto che arriviamo a San Diego a un’ora improponibile. Per fortuna l’Hampton Inn di Downtown è effettivamente in pieno centro, a due passi dal Waterfront, e l’irreprensibile Sam ci ha già informato via WhatsApp durante il viaggio sull’offerta gastronomica dei dintorni. Ma è tutto inutile: sarà il Capodanno, sarà che siamo dopo le 22, ma pure i fast food hanno già chiuso i battenti. Guidando un drappello di affamati che comprende anche Stefano, Benedetta, Alina e Melania (più per compagnia che per fame), mi gioco il tutto per tutto tentando di andare a piedi al Drive Through di Jack In The Box, ma per prima cosa la telecamera del totem degli ordini non mi riconosce perché non ho intorno una macchina, e quando provo allora a chiedere direttamente allo sportello del ritiro ordini, la signorina mi informa che non sono autorizzati a servire pedoni.
Valutiamo le possibilità: fermare un’auto e farci fare un ordine da loro presenta l’altissimo rischio che questi poi spariscano con i nostri panini (e/o i nostri soldi); accarezzo per un attimo l’idea di tornare in albergo, salire in camera, recuperare le chiavi della Pacifica, scendere in garage e tirare fuori la macchina solo per fare l’ordine al Drive Through, ma mi sembra troppo stupida anche per me.
Ci avventuriamo allora all’interno verso Little Italy, confidando nel noto nottambulismo dei nostri connazionali, e in effetti troviamo una pizzeria apparentemente aperta che però non effettua più servizio al tavolo: c’è qualche trancio rimasto in esposizione al bancone che francamente mi ispira come la farina di grillo, mentre stimola l’immaginazione di Stefano (che dopo le tagliatelle Alfredo potrebbe mangiare pure i suddetti grilli, vivi e saltellanti) e di Alina, che con un paio di frasi in calabrese stretto riesce a ottenere un sostanzioso sconto sul suo trancio.
Soddisfatti i nostri amici, Restiamo da sfamare io e Ben, mentre Mel si accontenta di passeggiare in compagnia, e con tutto ormai malinconicamente chiuso, non ci resta che tentare di recuperare qualcosa di commestibile e di vagamente caldo al Seven Eleven. Alla fine tra patatine, mini-burritos e bibite gassate risolviamo la questione, non senza patemi visto che alcuni loschi personaggi si avvicinano pericolosamente a Benedetta, non si capisce se attratti dal suo portafogli o da lei medesima, facendoci drizzare le antenne e mettendoci in modalità allerta. Velocemente fuori dal locale, allunghiamo i passi verso l’albergo che per fortuna dista pochi metri, senza smettere di guardarci le spalle dal momento che un paio di figuri sembrano davvero seguirci; ma alla fine entriamo nella lobby sani e salvi e anche per stasera è andata. Bienvenidos a San Diego, bebés!