di Mattia Bragadini
Da San Francisco a Santa Barbara
Dopo tre notti sulla Baia arriva quindi il momento di partire finalmente per l’attesissima parte on the road del viaggio, durante il quale copriremo le 500 miglia che separano San Francisco da San Diego, il punto più a sud del nostro tour; miglia che al termine del viaggio saranno ben più del doppio, viste le varie deviazioni e la risalita finale verso Los Angeles. Io, Samantha e Giovanna siamo i tre fortunati intestatari dei contratti di noleggio delle nostre auto. Giorgio ci accompagna agli uffici della Sixt in quanto autista di back-up di tutte e tre le macchine, che poi in realtà finirà per guidare più di tutti, dal momento che Sam si trova più a suo agio lato passeggero, dove può coordinare il gruppo via WhatsApp e fungere da navigatrice (“Non andate sulle corsie Express!!!”).
A me viene arbitrariamente riservato un upgrade rispetto alle dignitosissime e spaziosissime Tiguan degli altri, e mi ritrovo tra le mani una specie di portaerei che la Chrysler ha battezzato Pacifica perché probabilmente Monolocale non suonava bene. Basti pensare che solo tre giorni più tardi scopriremo un vano portaoggetti sotto al sedile del guidatore, colmo di lattine di birra e Red Bull ancora piene dimenticate dai clienti precedenti.
Fortuna che le strade e soprattutto i parcheggi americani sono tarati su quelle dimensioni, anche se la prima manovra nel sotterraneo dell’albergo mi mette duramente alla prova. La flemma dei simpatici impiegati della Sixt che, come da manuale, cercano di venderci una decina di prodotti e servizi aggiuntivi, e che aspettano il nostro arrivo in ufficio prima di andare a recuperare le auto e fare loro il pieno, ci porta ad arrivare in albergo a caricare le valigie e gli altri cinque alle undici passate. Se non altro il caffè che gentilmente ci offrono è tutt’altro che male.
Ringraziando il cielo Alina, che ha subito più di chiunque altro la pioggia e il freddo di San Francisco, sembra finalmente recuperata ed è in grado di mettersi in viaggio. Ci dividiamo allora equamente tre per macchina, con Samantha a guidare la carovana sulla prima Tiguan con Giorgio al volante, mentre sulla Pacifica il mio equipaggio è interamente femminile con Marta, preziosa navigatrice che, tra una mail inopportuna delle colleghe insegnanti e l’altra, mi svela i segreti delle freeway, e Benedetta che con la sua effervescente curiosità tiene viva la conversazione che, complici le tante miglia da percorrere, ci consente di cominciare a conoscerci sempre più approfonditamente.
La destinazione finale è Monterey ma l’itinerario di oggi prevede un tour della Silicon Valley per conoscere i luoghi caratteristici della new economy. La prima tappa è al Meta Sign (in altre parole un cartello con il logo di Meta a ricordarci quanto soldi ha fatto Zuckerberg grazie alle nostre interazioni social) che ha preso il posto del pollice alzato davanti alla sede di Facebook. L’entusiasmo mio e di Marta per l’”opera d’arte” non è esattamente alle stelle, per cui optiamo per una tazza di caffè da Starbucks mentre teniamo d’occhio le macchine nel relativo parcheggio. Mentre sorseggiamo i nostri Latte, Marta cerca di spiegarmi come, salvo diversamente indicato, negli Stati Uniti si possa sempre svoltare a destra con semaforo rosso, ovviamente con circospezione. Cosa che suscita la mia perplessità e che eviterò di mettere in pratica se non in circostanze di assoluta tranquillità.
Recuperati i nostri compagni d’avventura dopo la spedizione fotografica, già che siamo a Palo Alto non vogliamo forse dare un’occhiata al leggendario garage di Steve Jobs? Va detto che la sicurezza al 2066 di Crist Drive a Los Altos è piuttosto rigida, e da queste parti sembrano non amare troppo gli assembramenti davanti a quella che a tutti gli effetti è una residenza privata (il concetto di privato ha una certa valenza oltreoceano), ma è comunque emozionante buttare un occhio dove più di quarant’anni fa fu assemblato il primo di una lunghissima serie di computer Apple.
Palo Alto, però, significa soprattutto Stanford, l’eccellenza dell’istruzione a stelle e strisce; l’elenco delle aziende fondate da ex studenti del college è impressionante e non solo nel campo della tecnologia: HP, Trader’s Joe, Nike, Dolby, Gap, Atari, Pixar, Netflix, Google, PayPal, LinkedIn, YouTube, WhatsApp, Instagram, Snapchat, per limitarsi ai colossi. Se la chiamano Silicon Valley un motivo certamente c’è.
Il campus peraltro ha un fascino indescrivibile: nonostante la scarsità di studenti, a loro volta a casa per le vacanze natalizie, l’intero complesso trasuda cultura e bellezza. Dallo stadio di atletica dove fa bella mostra di sé un wall of fame con i nomi di tutti gli atleti olimpici passati da qua, agli edifici del polo scientifico che fanno brillare gli occhi alle nostre STEM girl Giovanna (informatica) e Marta (biologia). Dall’impressionante stadio che ospita le partite di football NCAA degli Stanford Cardinal (con una capienza di 50.000 spettatori, per dire cosa significa negli Stati Uniti lo sport universitario), alle pazzesche sculture di Rodin che ci accolgono nel bel mezzo del quadrante centrale, con davanti a noi la Memorial Church e alle spalle prati verdi a perdita d’occhio.
Ci sarebbe da perderci l’intera giornata, che tra l’altro sta quasi volgendo al bello, ma tra una cosa e l’altra si sono fatte le tre e gli stomaci cominciano a brontolare. Dopo un assalto al negozio di souvenir dove facciamo incetta di magliette e felpe con il logo di Stanford o con quello delle squadre universitarie di baseball, football, basket, niente di meglio che un hamburger da In-N-Out per completare l’esperienza da studenti, e per celebrare quello che è effettivamente il primo pranzo tutti e nove insieme, dopo le varie defezioni dei giorni scorsi tra malesseri, stanchezza e jet-lag.
Il bello di In-N-Out è che ha un menù striminzito rispetto ai principali concorrenti (Hamburger, Cheeseburger o doppio Cheeseburger. Stop) a cui abbinare le immancabili patatine e un’ampia scelta di bibite e milk shakes, per cui le ordinazioni si raccolgono abbastanza facilmente, i panini hanno dimensioni ragionevoli e il tutto fa sì che i prezzi siano altrettanto ragionevoli. Mangiare con meno di dieci dollari è un’esperienza insolita negli Stati Uniti!
Ultima tappa del tour della Silicon Valley è la sede di Google a Mountain View, la pioggia è tornata a cadere violentemente sulle nostre teste, mentre il tasso di animazione nel quartier generale di Google il venerdì pomeriggio dell’ultima settimana dell’anno è più vicino a quello di un ufficio postale di provincia che a quello di un colosso del Nasdaq. Dopo un breve consulto di sguardi, tra di noi e verso il cielo, riteniamo sia il caso di fare rotta verso Monterey, dove ci aspetta una bella e meritata doccia calda.
In omaggio alla bergamasca Marta, sciorino la mia playlist dei Pinguini Tattici Nucleari, sostituendo per un attimo quella dedicata alla California, e ci esibiamo nell’interpretazione di tutti i loro maggiori successi e Benedetta ne approfitta per schiacciare un pisolino prima di cena. Ma davvero cantiamo così male?
Il Mariposa Inn & Suites di Monterey è strutturato in modo molto simile al tradizionale hotel che ben conosciamo, ed è dotato di un parcheggio coperto cui viene resa lode e gloria dal momento che continua a piovere come in una campagna britannica, e di una graziosa piscina scoperta che giace inutilizzata per gli stessi identici motivi. Come spesso accade da queste parti, tuttavia, l’accesso alle stanze è comunque dall’esterno e il percorso con ombrelli, freddo e valigie è talmente probante che non appena entrato in camera Stefano si butta sul letto che ha scelto e si abbandona ai suoi video anni ’80, mentre io e Giorgio proviamo a organizzare il nostro ormai tradizionale talamo nuziale e diamo una sistemata ai bagagli, che tanto domattina dovremo già riprendere.
Potevamo venire in California senza cenare al California Pizza Kitchen? Certo che potevamo! E invece non solo ci andiamo (approfittando del fatto che il venerdì il locale chiude alle 22, una manna per le nostre abitudini) ma qualche coraggioso ordina addirittura veramente la pizza, e qualche supercoraggioso (vero Stefano?) pure la leggendaria Hawaiian Pizza con tanto di ananas. Io dopo aver valutato svariati cocktail e una sangria dall’aspetto invitante, opto per un più rassicurante piatto di carne anche per giustificare il mio abbondantissimo calice di Cabernet Sauvignon californiano, che non mi regala gioie immense come il cugino Chardonnay con cui ho accompagnato vari piatti di pesce, ma dà comunque una certa soddisfazione. Vediamo se la mezza bottiglia che mi hanno versato (alla faccia della tacca di livello!) riesce a stordirmi fino a riuscire a prendere sonno.
Invece no. Ancora una volta mi sorprendo a contemplare il soffitto ben prima dell’alba, ma tra il meteo avverso e la scarsa conoscenza dei luoghi, non mi avventuro in passeggiate lungo la sconosciuta Monterey, decido invece di sfruttare il momento per anticipare la folla nella piccola sala colazione. Rispetto a San Francisco, qua il buffet è molto più alla buona e prevede solamente alimenti confezionati, ma con mio sommo stupore, l’oatmeal (fiocchi d’avena) istantaneo che posso “cucinare” al mio grado preferito di densità è tutt’altro che sgradevole. Dopo una dose massiccia di caffè che compensi le ore mancanti di sonno, sono pronto per il selvaggio paesaggio del Big Sur!
Da Monterey ci avventuriamo allora verso sud lungo la leggendaria Highway 1 della California, con alla nostra destra il Pacifico e le rapide nuvole oceaniche che cambiano l’umore del cielo, come lo cambia una ragazza volubile. Ora plumbeo, ora assolato, ora pioggia, ora freddo. I monti Santa Lucia che si alzano a picco sulla costa frastagliata disegnano un paesaggio indimenticabile, a metà tra i fiordi e le zone più impervie della Liguria, con la furia dell’Oceano che però da queste parti a volte alza onde sopra i dieci metri. I punti panoramici non si contano, ma il Bixby Bridge con la sua peculiare forma architettonica, la sua altezza sul canyon sottostante (79 metri) e soprattutto l’incredibile scorcio sul Pacifico è sicuramente la top pick degli InstaLovers. Io stesso cedo alla tentazione di un ritratto instagrammabile, grazie al talento per l’inquadratura di Melania, con cui iniziamo il nostro fruttifero scambio di scatti. Dopo aver riempito di immagini i feed dei nostri amici e followers, riprendiamo la strada verso nord per rientrare su Monterey, ma prima è d’obbligo una sosta a Carmel by the Sea, splendida località balneare in stile “versiliano” dove la costa impervia del Big Sur concede una tregua, lasciando spazio a una gradevolissima spiaggia. Meno gradevole il clima, che continua a fare i capricci come un bambino viziato, regalando tuttavia una giostra di colori che varia di minuto in minuto: cielo che passa da plumbeo a pieno di luce, pioggia battente che lascia il posto a sole cocente nel giro di trenta secondi; e in tutto ciò gli imperterriti giocatori di beach volley in costume vanno avanti a giocare senza battere ciglio, a prescindere da ciò che accade in cielo.
Io, Sam e Ben ci concediamo una passeggiata lungo il paese mentre il resto del gruppo cede alla tentazione di un caffè e un dolce per ripararsi dalla pioggia. La cosa divertente è che piove solo quando loro sono all’aperto, circostanza che spinge noi tre a riflettere sugli eventuali influssi negativi sul clima da parte di uno di loro, che tuttavia non abbiamo ancora individuato.
Alla fine però riusciamo ad approfittare di una lama di sole per le nostre foto tutti insieme in spiaggia e, conclusa la gita a Carmel, ci dirigiamo nuovamente verso la marina di Monterey Bay, dove (all’ormai consueto nostro orario delle 15), andiamo a cercare il nostro pranzo lungo il molo di Fisherman’s Wharf, dove possiamo ammirare uno splendido arcobaleno sull’Oceano e mangiare pesce fresco al Rockfish Harbor Grill. Io e Samantha cominciamo a entrare nell’ottica americana per cui è sempre consigliabile dividere le porzioni: nello specifico l’ormai immancabile clam chowder e l’ottimo fisherman’s platter che altro non è che un abbondante fritto misto con gamberetti, calamari e filetti di scorfano con patatine. Invece Stefano, il nostro esploratore di prelibatezze (?) a stelle e strisce, non può esimersi dallo scegliere le insidiosissime fettuccine Alfredo (c’è della pasta in questa panna) e le conseguenze, ahinoi, saranno tragiche.
Ma ancora una volta abbiamo fatto tardissimo e la strada per Santa Barbara prevede altre 230 miglia verso sud lungo l’ormai familiare Interstate 101, saranno quasi quattro ore di viaggio. Prendo il comando della carovana, caricando Samantha come navigatrice al posto di Marta, la distraggo dalla sua ansia di controllo facendola cantare a squarciagola grazie a una playlist di hit rock e pop, e dopo aver clamorosamente sbagliato strada proprio all’ultimo bivio, siamo finalmente al Best Western Plus Pepper Tree Inn di Santa Barbara. Che è proprio il classico inn a due piani che vediamo nei film, con la zona reception separata e il parcheggio all’esterno davanti alla propria stanza, peccato solo che siamo tutti al primo piano, con bagaglio da stiva da 23 kg. e nessun ascensore.
Vista l’ora nasce il problema della cena, ma complice il sabato prefestivo troviamo per puro caso una splendida steakhouse, anche se il nome, Chuck’s of Hawaii, non prometteva nulla di buono. Invece la carne a detta di tutti è buonissima, io opto però per una trota dell’Idaho (e quando la rimangio la trota dell’Idaho?) come sempre innaffiata dal mio ormai inseparabile Chardonnay, e troviamo addirittura compresi nei prezzi delle portate dell’ottimo pane fresco e, udite udite, un abbondante buffet di verdure da cui servirsi. Sembra un sogno, dopo giorni di sole patate. Sogno che invece nello stomaco di Stefano diventa un incubo: lo vediamo con lo sguardo fisso e sorprendentemente inappetente e alla domanda “Come stai?” deve ammettere: “Nun me sento tanto bbene”. Le fettuccine Alfredo mettono cinicamente e inesorabilmente in atto la loro vendetta. Marta, che ci ha accompagnato ma non ha voglia di cenare, si sacrifica e in veste di crocerossina si occupa di riaccompagnare Stefano all’albergo, che per fortuna dista pochi passi. C’è ancora tanta strada da fare nei prossimi due giorni e tante ore di macchina. Riuscirà il nostro eroe ad avere la meglio sulle fettuccine? La soluzione nelle prossime puntate.