di Mattia Bragadini
San Francisco
Lo abbiamo detto un milione di volte. Ce lo siamo raccontati un milione di volte. L’età non è altro che un numero. Stronzate. E ce ne rendiamo conto quando si avvicinano certi traguardi, e più ci diciamo che non è certo il caso di mettersi a fare bilanci nonostante quella cifra tonda in arrivo, più una vocina interiore continua a ripeterti che un bilancio è proprio il caso di farlo, che siano 30, 40, 50 o 60 anni. Ecco, il fatto è che quel bilancio non è mai in attivo. E tra le passività del mio conto economico c’era certamente l’assenza di un viaggio negli Stati Uniti. Ho girato mezza Europa, certo, e preso voli intercontinentali per Thailandia, Singapore e Australia, ma sempre per lavoro. Ho addirittura sfiorato i sacri confini difesi dalla Homeland Security atterrando a Montréal, ma il suolo a stelle e strisce non lo avevo mai calpestato. E no, non si può compiere cinquant’anni con questa lacuna.
Così con un po’ di tempo libero a disposizione, mio malgrado, e due lire da parte, quando un amico mi ha parlato di WeRoad non ho avuto dubbi su quella che sarebbe stata la mia destinazione; qualche dubbio in invece più sulla meta del viaggio che in un primo momento avrebbe dovuto essere New York. Ma poi quando ho letto California 360 dal 26 dicembre al 6 gennaio, ogni riserva è andata in frantumi. Così mi sono iscritto a questo viaggio, consapevole del fatto che tra le altre prime volte della mia vita ci sarebbe stata anche quella della prima vacanza con un gruppo di sconosciuti. Poi man mano che si avvicinava la data di partenza, grazie alla chat WhatsApp creata ad hoc per scambiarsi informazioni e programmare attività, il gruppo di sconosciuti è diventato sempre meno di sconosciuti. Già darsi un appuntamento del tipo “Ci vediamo domani a San Francisco” in una chat è comunque un’esperienza singolare, proprio come darsi appuntamento al solito baretto sotto casa per un caffè.
Il gruppo, appunto, Se non fosse stato per l’asimmetria di genere (tre ragazzi e sei ragazze) la composizione poteva tranquillamente sembrare il casting del Grande Fratello o di un altro reality show del genere, tanto erano definiti i ruoli di ciascuno di noi, tanti erano i talenti più o meno nascosti che il gruppo esprimeva al di là della banale attività lavorativa.
A cominciare dalla nostra splendida coordinatrice Samantha, paradossalmente la più giovane del gruppo a gestire una serie di over 35, trovando sempre il giusto compromesso tra leadership e “fate un po’ come cazzo vi pare”, con la sua contagiosa passione per la musica (pure produttrice la ragazza…) e in particolare per il karaoke.
E poi Melania, presto ribattezzata Melagnez per la sua attitudine social, con la passione per la danza e lo yoga e un talento indiscutibile per la fotografia da entrambi i lati dell’obiettivo: non ci sono stati murales che non abbiano voluto fare una foto con lei.
La nostra mascotte Stefano, veterano di WeRoad e di viaggi organizzati, sempre presente ad ogni evento fino a tarda sera, con la sua passione per il trash anni ’80 e il suo sguardo innocente e pulito sul mondo, salvo quando sveniva la sera in camera appena sfiorato il cuscino e attaccava la motosega che accorciava di molto le mie notti californiane.
La professoressa Marta, la nostra guida local, forte di parenti dalle parti di Irvine e di già altri sei soggiorni sulla West Coast; pronta a prendere le redini del gruppo quando gli studenti erano un po’ troppo indisciplinati e a guidarci nella giungla delle freeway e delle highway.
La dolce Giovanna, poi, valenciana di Roma (o romana di Valencia?), con la sua calma serafica anche nel traffico di Los Angeles e la sua cadenza flemmatica, portava tranquillità in tutte le situazioni e rappresentava la vena più glamour del gruppo con la sua passione per moda, arte e cucina stellata.
Il nostro imprenditore Giorgio, portatore sano di accento padrinesco e cioccolata di Modica, con la battuta sempre pronta e mille attenzioni per le nostre California Girls, deputato a raccogliere informazioni di vario tipo dai passanti con il suo tipico “Excuse me, sir…”
La risata contagiosa di Alina (“Eheheheh”…), articolata nella sua inconfondibile cadenza calabrese, ironica e autoironica, martoriata dalla pioggia e dalle basse temperature di San Francisco ma senza mai perdere la voglia di ridere e di sorridere.
E poi la nostra cover girl Benedetta, gambe infinite e sorriso disarmante, affamata di vita e di esperienze, con il suo sguardo dolce e una parola buona per tutti. Impossibile non fare nuove conoscenze uscendo la sera insieme a lei, anche se, ahimè, prevalentemente conoscenze maschili.
E infine c’ero io, il più maturo del gruppo (ma solo anagraficamente), ad osservare con fare distaccato le dinamiche sociali, totalmente rapito dalla bellezza dei posti, con le mie passeggiate solitarie e la mia passione per la scrittura già pronta a declinarsi in questo diario, pur avendo preso appunti solo con gli occhi.
E così, tutto questo premesso, dopo un volo massacrante da Malpensa a San Francisco via Monaco (se ve lo state chiedendo, no: Lufthansa non è Emirates e lo spazio per stendere le gambe e dormire qualche ora è puro miraggio), mi ritrovo sulla Baia a notte fonda. Già, ma invece in California sono le 18:30. Benvenuto nel mondo del jet-lag.
Dopo un’attesa di nemmeno un’ora al controllo passaporti (e dopo aver rischiato di essere rispedito in Italia a calci, non capendo una parola di quello che mi chiedevano a causa delle orecchie tappate dal volo) prendo il primo di una lunga serie di Uber e raggiungo l’albergo.
Mi sento come uno che ha passato 15 ore tra voli e scalo a cui ha sommato 9 ore di fuso orario, ma il resto della compagnia non sembra messo granché meglio: incontro finalmente i miei compagni di viaggi nella lobby del Comfort Inn by The Bay, di ritorno dal Pier 39 dove hanno cenato velocemente prima di cedere al sonno. Sono tutti abbastanza cotti, su tutti Giovanna che è rimasta direttamente in camera causa malessere. Recupero Giorgio e Stefano che saranno i miei compagni di stanza per le prossime dodici notti, salto la cena (i ravioli di Lufthansa stanno ancora ballando il boogie nel mio stomaco) e vado a dormire. Dormire… parliamone.
Stefano usucapisce uno dei due letti, lasciando a me e Giorgio l’onore di condividere l’altro (tradizione che sarà poi rispettata in ogni albergo) e si addormenta in tempo zero, sottolineando l’evento con una dirompente colonna sonora. Io che ho perso da ore il ritmo veglia-sonno, mi appisolo un quarto d’ora e poi passo la mia prima notte californiana con gli abbaglianti accesi a fissare il soffitto. Alle sei l’orario mi sembra congruo per scivolare nella doccia e scendere a colazione: la notte è andata così così ma sicuramente ad Alcatraz se la passavano peggio. Andiamo a controllare.
I 500 mm. di pioggia che cadono annualmente a San Francisco hanno deciso di darsi tutti appuntamento in questi giorni di nostra permanenza, giusto una piccola tregua durante il viaggio di andata verso l’isola, al centro della Baia, per permetterci di salire in coperta a fare foto e video. Alcatraz è un luogo incredibile e tutto è rimasto come ai tempi del penitenziario federale, chiuso nel 1963. C’è ancora il cartello che avverte: chi trasgredisce le leggi va in prigione, chi trasgredisce le leggi della prigione va ad Alcatraz. E ci sono ancora le testimonianze della pacifica occupazione dei nativi americani del 1969 che segnò una svolta nelle relazioni tra il Governo degli Stati Uniti e i pellerossa. Veniamo rapiti dalle storie, i racconti, il percepibile senso di alienazione dell’isolamento totale, il paradosso della skyline di San Francisco, così incredibilmente bella e vicina durante le ore d’aria e così irraggiungibile, salvo che per i pochi coraggiosi che riuscirono a evadere.
A nostra volta, noi evadiamo a ora di pranzo abbondantemente superata e appena messo piede a terra ci fiondiamo a mangiare in un ristorante nei pressi del molo, dove la California ci dà il suo benvenuto con le sue porzioni extra large e soprattutto con i suoi conti mozzafiato: 30 dollari un sandwich di pollo, peraltro ottimo e (ça va sans dire) abbondante.
Nel pomeriggio prendiamo finalmente il tipico tram d’epoca che, per soli 8 dollari (!), ci porta tra i saliscendi di San Francisco fino alla centralissima Union Square. La pioggia non dà segni di tregua, obbligando Benedetta e Alina a investire un’altra paccata di dollari per un paio di ombrelli senza nemmeno una scritta o un logo a Chinatown. Per poi trovare rifugio dal maltempo in un caffè di Little Italy, dove il caffè di Italy aveva ben poco.
Dopo una doccia rinfrancante in albergo, finalmente anch’io posso fare il mio esordio al Pier 39 per la cena dove faccio conoscenza con il clam chowder: la tipica zuppa di pesce che da queste parti arricchiscono con ottima polpa di granchio e che accompagnerà vari pasti lungo il Pacifico.
La seconda mattina californiana me la gestisco meglio: visto che tra il jet-lag e la falegnameria in piena funzione in camera, di dormire oltre le 5 non c’era proprio modo, una volta presa confidenza con il vicinato esco nel buio della notte invernale per avventurarmi in una passeggiata lungo la baia. Intorno un silenzio e una solitudine quasi surreali, interrotti solo da un eroe che sta appunto uscendo dalla baia (con il solo costume!) dopo un coraggioso bagno notturno e si asciuga nei pressi della sua automobile. Mi spingo di nuovo fino al Pier 39, silenzioso e deserto, salutando con un gioioso “Good morning!” i pochi operai al lavoro sulle facciate dei negozi e degli esercizi ancora deserti. Attendo l’alba per rubare con gli occhi e con le foto la meraviglia del sole che sorge al di là del Bridge Bay per poi rischiarare minuto dopo minuto la superficie immobile della baia, il Golden Gate laggiù in fondo e infine i grattacieli di Downtown alle mie spalle. Uno spettacolo superbo da festeggiare, prima della passeggiata di ritorno all’albergo già con la luce del giorno, con una colazione local: Latte e Double-Chocolate Brownie da Starbucks, a cui devo bussare, primo cliente della giornata, all’apertura delle 7 in punto.
Difficile dire cose sul Golden Gate Bridge che non siano già state dette. Si possono riassumere in alcuni punti essenziali: in primo luogo è uno dei pochi posti al mondo per cui l’aggettivo “iconico” può essere speso senza provocare orticaria; poi per quanto sia stato visto milioni di volte in film, telefilm, poster, foto e serie TV, esserci sopra, sotto, davanti, di lato è un’esperienza incredibile; per concludere, le foto che tutti abbiamo visto con il Golden Gate in pieno sole sono evidentemente photoshoppate, dal momento che ci deve per forza essere un sistema automatico che genera foschia (e con un po’ di fortuna, pioggia) ogni volta che si apre l’obiettivo di una macchina fotografica o la fotocamera di uno smartphone. Non sfugge, infine, come la passeggiata che passando sotto al ponte porta al punto panoramico sia tappezzata da volantini che offrono supporto psicologico; a ricordarci il lato tragico che questi ponti iconici (ecco, l’ho fatto) portano con sé, nonostante le altissime barriere.
Dopo una tappa al caratteristico villaggio marino di Sausalito, dall’altra parte del ponte, dove consumo il secondo clam chowder del viaggio, torniamo a dirigerci verso il centro. La cosa strana dell’America per noi europei abituati a bellezze ottocentesche, medievali e addirittura romane, è l’assenza totale di storia nelle loro urbanizzazioni. San Francisco, per esempio, fu fondata nel 1850 e gran parte di quella fondazione è stata rasa al suolo dal tremendo terremoto del 1906. Tra le poche opere sopravvissute ci sono le Painted Ladies, note anche come le “sette sorelle”: sette villette in stile vittoriano e coloratissime come ce ne possono essere un po’ ovunque nel mondo, ma divenute famose, ci racconta il nostro autista di Uber, grazie alla sit-com Gli amici di papà. Il nostro entusiasmo là davanti si manifesta, per così dire, un po’ forzatamente.
Molto più interessante il tour di downtown che mi concedo, lasciando la compagnia diretta al Pier 39 per lo shopping, cominciando dalla splendida chiesa di San Francesco d’Assisi (come perdersela a San Francisco?), passando per la City Hall, dove il 14 gennaio 1954 si sposarono Joe Di Maggio e Marilyn Monroe, e il Civic Center fino ad arrivare all’altrettanto bella chiesa di San Pietro e Paolo e alla via dello shopping di Market Street.
L’ultima sera sulla Baia viene poi consacrata da Samantha al suo amato karaoke, in un caratteristico e accogliente locale poco turistico, e senza tradire le aspettative la nostra cantantessa ci regala emozioni, duettando con la sua nuova amica local sulle note di Beautiful Day dei “nostri” U2, e di Flowers di Miley Cyrus. Per il sollievo dei presenti, raucedine e stanchezza mi impediscono di unirmi all’esibizione, e così mi limito a un paio di bicchieri dell’ottima IPA locale e alla prima cena dal sapore vagamente tex-mex, preparandomi psicologicamente a una nuova notte in falegnameria e soprattutto all’esordio sulle freeway americane di domani mattina. Il tour on the road sta per cominciare.