di Irma Nisi
Alfa e omega
Inattesa, la notizia si diffuse, dapprima come un vocio sommesso, poi con dialoghi rispettosi e infine, risalendo lungo il corso e diramandosi per il dedalo di viuzze che da esso prendevano origine, giunse fino al villino sul cui uscio il maestro Pelusi indugiava a salutare Pasquale. Fu la testa armata di bigodini di Vanna Moroni a dirglielo, sporgendosi dalla finestra del primo piano e sibilando la sua verità come l’unico verbo ammissibile: «Don Aurelio, Professò, Don Aurelio! È morto».
Tutto poteva aspettarsi Pelusi, ma non che quell’uomo vigoroso avrebbe lasciato il suo posto nel mondo così presto.
«Morto? E che è successo? Ha avuto un incidente?» chiese allibito.
«Ma quale incidente? Morte naturale è stata» rispose la Moroni scrutandolo con occhi furbi.
«Pace all’anima sua, bisognerà dare conforto alla famiglia, donna Olivia sarà per certo affranta dall’immenso dolore e sconvolta dall’inatteso evento» e si ritirò in casa, congedando in fretta Pasquale e chiudendosi la porta alle spalle.
Gli dispiaceva per il dottore, era sempre stato un sostegno al momento del bisogno; quando aveva dovuto affrontare quel fastidioso problema che gli impediva di vivere le sue giornate con la giusta leggerezza, Don Aurelio lo aveva consigliato per il meglio.
«Maestro Pelusi, mangiare bietole non è più sufficiente» gli aveva detto, chiamandolo col titolo giusto, almeno lui, «non è niente di grave, ma c’è bisogno di un proctologo» e gli aveva spiegato per bene cosa facesse un proctologo e come presumibilmente sarebbe intervenuto. «Inoltre» lo aveva rassicurato «se si rivolge al mio collega, nessuno in paese ne verrà a conoscenza, che qui per un nonnulla si genera una sequela di chiacchiere che è sempre meglio evitare».
«Era anche discreto» pensò Pelusi fra sé e sé «la vita è proprio ingiusta, e pure la morte. Ma dove diamine si è cacciata quella, che si son fatte le sei!»
Cominciava a essere preoccupato, Gabriela non aveva mai agito senza riguardo nei suoi confronti, non riusciva a trovare una spiegazione. Ma decise che non era ancora giunto il momento di impensierirsi. Si immalinconì al pensiero che Don Aurelio non avrebbe mai saputo che la terapia di carne di cavallo aveva finalmente sortito i suoi effetti ma la prospettiva della paternità lo rasserenò: «Facciamo passare il clamore della dipartita del dottore» si disse «che questa notizia deve arrivare come un lampo a rischiarare le teste ottuse di tutto il paese: Pelusi le donne le sa scegliere!».
Pensò che forse, dopo la visita medica, Gabriela fosse rimasta turbata e non si fosse sentita pronta ad affrontarlo nel modo giusto. Certamente stava cercando di calmarsi prima di dargli la bella notizia e di sicuro si era andata a rintanare a casa di Maria.
Al pensiero di sua cognata la bocca di Pelusi si arricciò. E che ci poteva fare, quella proprio non la reggeva: ben nascosta sotto i lineamenti delicati, la minuta Maria celava un’aggressività corrosiva in casa e sul lavoro, dando una volta di più conferma alla sua personale teoria per cui le donne lavoratrici siano un pericolo per la famiglia e la società.
Giunto a casa di Maria trovò ad accoglierlo suo cognato, che appena smontato dal turno si preparava ad affondare i piccoli denti in un maritozzo.
«Entra» gli disse a bassa voce «ti offro un caffè».
E mentre l’odore della miscela si liberava dalla napoletana, i due cominciarono a chiacchierare.
«Don Aurelio, e chi se l’aspettava!» esordì Pelusi, «Ma com’è stato? Cosa è successo?».
«Povero dottore, il cuore fu. Era appena arrivato a Bellavista, si deve essere sentito male e non c’è stato niente da fare».
«Al cuor non si comanda per davvero» si lasciò sfuggire Pelusi, impaziente di portare il discorso su ciò che gli interessava maggiormente in quel momento.
«È da stamattina che non vedo Gabriela, Luisella mi ha detto che aveva una visita, ma ancora non è tornata, a me non ha detto niente. Sono in arrivo ottime, ne sono certo!».
Gli occhi limpidi di Carmelo si spalancarono per poi posarsi furtivi dapprima sulla caffettiera e poi sulla zuccheriera, incapace addirittura di far girare il cucchiaino nella tazzina.
Pelusi smise immediatamente di sfregarsi le mani: «Cognato – fratello – cosa mi stai nascondendo?».
«Niente, niente, è che mi fa piacere. Oramai nessuno ci sperava più».
«Ma la cura di Don Aurelio, pace all’anima sua, prima o poi doveva dare i suoi risultati» esclamò trionfante il maestro.
Carmelo apparteneva a quella categoria di persone dall’animo puro, il cui viso tradisce la sensazione di fastidio suscitata dall’essere complici di fatti, misfatti o semplici omissioni. Non fu difficile per Pelusi farlo parlare.
«Gabriela era angosciata alla sola idea di cibarsi di carne di cavallo. Voleva provare a fare qualcosa da sola e ridurre i tempi di quella cura che le era insopportabile».
E infatti, accompagnata da una scettica Maria, si era recata da Zia Pasana che abitava in due camere buie e soffocate d’incenso all’uscita del paese.
Strofinando i polpacci strizzati nei gambaletti smagliati, la vecchia le aveva guidate verso il tavolo della cucina e, riposto al sicuro il pezzo di manzo che Gabriela le aveva portato, aveva cominciato a svoltare le carte.
«La situazione è parecchio complessa, ma qualcosa si può fare» aveva detto fissando il ventre di Gabriela, «perché figlia mia, quando le forze del male decidono di fare i dispetti, bisogna portare pazienza».
Le aveva chiesto di ritornare dopo tre giorni, il tempo necessario per evocare le forze del bene e avere un consiglio dal Cielo.
«E che giorni furono quelli per Gabriela, carichi di ansia e aspettativa. Innanzitutto, aveva dovuto convincere Maria a prestarle i soldi per comprare il pesce fresco da portare a Zia Pasana. Poi era stata costretta a mentire a te, suo marito!» sospirò Carmelo.
Pelusi fu quasi commosso dalle ultime parole, ma il pensiero di quante sciocchezze sua moglie fosse stata in grado di compiere a dispetto dell’educazione razionale che le aveva impartito lo fece imbestialire.
«Fatto sta che tre giorni dopo Gabriela e Maria andarono di nuovo dalla vecchia, stavolta con una cefalo da quattro chili da far resuscitare i morti».
«Figlia mia, hai smesso di soffrire. Santa Elisabetta e la Madonna ti hanno accolto sotto la loro protezione».
E così dicendo, Zia Pasana aveva estratto da sotto il grembiule una bottiglia dal vetro scuro e consegnandola a Gabriela l’aveva rassicurata: «Devi bere cinque sorsi ogni ora, camminare per cinque minuti in tondo, lavarti le mani e batterti il petto tre volte. Così, fino a quando il liquido miracoloso che mi ha portato in dono stanotte proprio San Giovanni non finirà. Vedrai che fra due mesi sarai piena».
«Gabriela si fece convinta che l’acqua benedetta le avrebbe restituito il sorriso e a niente servirono le parole di mia moglie. Solo una scema poteva credere a una tale imbrogliona».
Pur seguendo alla lettera tutte le istruzioni, dopo quattro mesi niente era ancora cambiato e continuare a mangiare le braciole di cavallo per Gabriela era diventato oramai insostenibile. Per questo in preda alla più cupa disperazione una mattina si era presentata davanti alla porta del dottore: «Don Aurelio, mi deve aiutare, non ce la faccio più» disse piangendo e affossando la testa sul petto largo del vecchio dottore.
Al pensiero di Don Aurelio, Pelusi si tranquillizzò: basta riti magici. La parola spettava alla scienza.
«E Don Aurelio cosa le disse?» domandò curioso.
«Don Aurelio le consigliò intanto di continuare a mangiare le braciole, ma le disse pure che un’altra soluzione al problema, sebbene più drastica, c’era e sarebbe stata quella definitiva. La natura va aiutata, le disse, ma in quale forma a me mia moglie esattamente non lo ha mai confidato» concluse Carmelo.
«Se il carniere è vuoto, forse è perché il fucile non spara e bisogna usarne uno che non s’ingrippa». La voce beffarda di Maria riempì la stanza levandosi sopra l’aroma del caffè e immediatamente un sapore acido aggredì la faringe di Pelusi. La conosceva bene quella sensazione: era l’effetto cognata, una grande e implacabile botta di nervosismo che non avrebbe potuto sfogare senza violare le regole della buona educazione.
«Cognata cara, buonasera, vedo che le tristi notizie di oggi non ti hanno tolto la voglia di scherzare».
«Cognato caro, ma quale scherzo, controlla il conto del macellaio e poi vediamo se scherzo…» gli rispose la donna impettita.
Carmelo a quel punto avrebbe voluto solo sprofondare: nonostante il grande spaccone che era, Pelusi gli faceva pena e sua moglie aveva proprio esagerato. Così si sentì in dovere di fare l’uomo pure lui: «Maria, stai zitta che queste sono cose da pettegole. Non ti rendi conto che offendi tuo cognato e offendi pure tua sorella?»
Ma Pelusi si era già dileguato senza nemmeno salutare, un solo attimo in più in quella casa avrebbe fatto di lui un assassino. «Quella diavola, megera! Che voleva sottintendere…Il conto dal macellaio non c’è bisogno che lo controlli, lo pago io, tutte le settimane».
Dato che si erano fatte le sette decise di tornarsene a casa: «Vuoi vedere che me la ritrovo lì, e mi starà a sentire, non se la cava con semplici scuse oramai».
Ma la casa era ancora deserta, nessuna luce accesa, le ceneri nel camino oramai spente, nessun odore di cucina a solleticare il suo olfatto. Pelusi sprofondò nella poltrona e, sopraffatto da un sentimento di vaga tristezza, cedette infine al pianto, alla vergogna e alla stanchezza.
Cu l’ali bbasciati…
Brava Irma, molto bello. Complimenti, adesso che ti ho “scoperta” leggerò anche gli altri racconti.
Giancarlo.
Irma complimenti le tue parole mi hanno stregato…non farci aspettare molto per il 4 capitolo!!! Bellissimo racconto adoro lo stile e i rimandi alla nostra cultura meridionale! In attesa un caro saluto
Giusy
In trepida attesa del 4 capitolo!!!!
Il mistero s’infittisce…ma sta Gabriela do’ è sci spicciata??
Bellissimo racconto!
Un’avvincente storia della porta accanto,in un’atmosfera di paese che accomuna molti.
Ora vogliamo sapere che fine ha fatto Gabriela,con una L.