di Marcello Mendogni
Alfredo Cobianchi era il più istruito del paese. Almeno secondo i suoi compaesani. Aveva una cartoleria proprio in piazza a Soragna; seduto su una seggiola, sotto l’arco del portico, sfogliava nell’ombra un vocabolario Zingarelli edizione minore del 1938, le pagine ingiallite e scollate dal dorso, con l’intenzione di impararlo a memoria. Non le definizioni, quelle lo interessavano poco, ma almeno tutti i vocaboli.
Sua moglie Dirce lo invitava a parlare in dialetto come tutti gli altri, che faceva fatica a capirlo, ma lui non le dava retta: molti lo consultavano per un consiglio, convinti che ne sapesse più di loro.
Un giorno la Bruna, quella del negozio di casalinghi di fianco alla cartoleria, prese una seggiola e gli si mise di fianco. Scostò i vaporosi capelli neri dal viso rotondo e gli raccontò che la proprietaria del negozio si era lamentata per il ritardo nel pagamento di un paio di rate di affitto.
– Ti pare possibile? Sono vent’anni che pago regolarmente, ho tardato marzo e aprile perché ho avuto delle spese, te l’ho detto che Gianluca sta facendo l’università a Bologna, che poi, sta facendo è una parola grossa, fa un cazzo secondo me, ma ha delle spese – raccontava con voce concitata – e poi maggio l’ho pagato il giorno della scadenza, preciso, solo che in banca ci hanno messo quattro giorni per accreditarle il bonifico, quei cazzoni –
Cobianchi quasi non riusciva ad aprire bocca, e dopo dieci minuti di indignazioni, lamentele e promesse di vendetta, quando la Bruna tirò finalmente un sospiro adagiando la schiena, riuscì ad esporre il suo pensiero.
– Anche tu però non devi essere così sagace: in fondo non bisogna prendersela per così poco, lo sappiamo tutti che la tua proprietaria è parecchio scettica, basta assecondarla e vedrai che non ti farà problemi –
La Bruna con un profondo respiro inghiottì i consigli di Cobianchi e mormorò, finalmente tranquilla – Io sarò pure sagace, lo sai che se mi innervosisco poi non ragiono più, ma lei è davvero parecchio scettica, sempre a precisare, e oggi è in ritardo, e deve pulire meglio la soglia del negozio, e che palle. Non li sopporto, gli scettici –
Si salutarono, Cobianchi rientrò in cartoleria, prese un lampostil rosso e sottolineò “sagace” e “scettico” sullo Zingarelli.
Ogni giorno, e sempre di più, c’era la processione di uomini e donne che tiravano una seggiola di fianco a Cobianchi e gli domandavano un consiglio; e più le sue risposte risultavano strane, più aumentava la considerazione di cui godeva.
Si avvicinavano le elezioni amministrative e qualcuno cominciò a far girare la voce che Cobianchi sarebbe stato un candidato prestigioso per la carica di Sindaco, naturalmente per una lista civica di persone volonterose e preoccupate solo del bene del paese.
Un giorno di giugno don Ampelio portò la sua magrezza scheletrica dispersa nella giacca nera e nella camicia bianca davanti alla seggiola di Cobianchi, che stava in faccia al sole delle dieci a leggere Famiglia Cristiana.
– Vedo che legge le cose giuste, Alfredo – esordì il prete.
Cobianchi sollevò la testa calva e strizzò leggermente gli occhi piccoli e neri per osservare il visitatore.
– E certo, se non si vuole perdere la testa, con tutta questa confusione dei partiti e movimenti e scissioni. Non ci si capisce più niente, è una diaspora –
– Come la capisco, anche noi parroci di campagna abbiamo il nostro da fare, e dobbiamo lavorare alacremente ogni giorno, sa? –
– Perché, c’è puzza dove lavorate voi? Non avrei mai detto –
Don Ampelio lo squadrò con gli occhi perduti in fondo ai crateri delle orbite, Cobianchi intuì che non aveva capito, ma forse non aveva mai letto lo Zingarelli. Va bene il latino, che tanto non lo capisce nessuno, ma almeno l’italiano, avrebbe dovuto studiarlo.
– Sì, se lavorate alacremente ci dev’essere una gran puzza, sa, gli odori che si attaccano ai vestiti e bisogna lasciarli fuori dalla finestra – Alacremente: magari poteva usarlo anche con la Dirce, dicendole di mettere a lavare la camicia che era alacre. Lei l’avrebbe mandato a cagare, ma non gli importava.
– Alfredo. Qui c’è bisogno di lei – riprese don Ampelio con la voce vibrante da omelia, una volta riavutosi dallo sconcerto – C’è bisogno di fede, amore e carità, e c’è bisogno di cultura. Lei può essere la persona che rende Soragna un posto bello in cui vivere –
Cobianchi lo fissò, sorpreso – Sono implementato. Davvero non mi aspettavo una cosa del genere, don Ampelio. Lei crede…crede sul serio che io possa rendere Soragna un posto, come dire, catartico? – ricordarsi di segnare sullo Zingarelli “implementato” e “catartico”, rammentò a sé stesso.
Il prete rimase qualche secondo interdetto, poi domandò: – Catartico, in che senso? –
– Nell’unico senso possibile: un posto tranquillo e sereno, di persone operose e piene di comprensione l’una per l’altra, che vivono secondo regole condivise, nel rispetto della fede e nell’amore per Gesù. Catartico, insomma –
Don Ampelio rimase perplesso, strizzò gli occhietti neri e lo scrutò.
– Capisco, l’unico senso possibile. Sono d’accordo senz’altro, e molti saranno dalla sua parte, lo sappia – salutò Cobianchi con un mezzo inchino e riprese la via della chiesa. Avvertire Gerboni e Poletti di guardarci bene, prima di candidare Cobianchi, disse a sé stesso mentre le scarpe nere coi lacci battevano rapidamente il selciato.
Ma ormai l’onda della lista civica era partita e si ingrossava ogni giorno di più.
La Dirce non poteva crederci. Si abbassava sugli occhi il fazzoletto blu legato sulla nuca, borbottava in dialetto espressioni di incredulità mentre faceva il bucato: Alfredo Cobianchi, che nemmeno sapeva fare la spesa alla Conad con un minimo di raziocinio, e si addormentava mormorando parole incomprensibili dopo aver riposto sul comodino il vocabolario, sindaco di Soragna. Qualcosa che andava contro l’ordine naturale delle cose, o forse no, a pensarci bene lo confermava.
Ormai quasi ogni sera Gerboni e Poletti, a volte anche don Ampelio, erano a casa di Cobianchi, e parlavano di strategie, alleanze e programmi; e la Dirce tagliava dei gran salami e sturava delle gran bottiglie di malvasia, sempre borbottando in dialetto.
– Dirce, bisogna sedimentare, porta qualche seggiola – le ordinava Cobianchi quando alla compagnia si univa qualche nuovo infervorato concittadino, magari con la mira di un assessorato.
Nel corso dell’estate le riunioni divennero ancora più frequenti: la sinistra aveva candidato Giuseppe Ugolotti, un sindacalista panzuto con il pizzetto e i baffi che lavorava nella fabbrica di conserve di Ardenghi, e che il padrone, aveva più volte tentato di licenziare, ma senza risultato. E ogni giorno rompeva i coglioni con reclami ed esposti all’Ispettorato del Lavoro.
Erano bastati i primi comizi in piazza per capire come sarebbero andate le cose: trenta, quaranta persone con le bandiere rosse davanti a Ugolotti. Con il vocione tonante cercava di convincere i soragnesi che a distanza, al riparo dei portici, osservavano con curiosità e un po’ di allarme. Giustizia sociale, servizi sociali, più eque condizioni di lavoro, e poi le solite cose, asfaltatura delle strade, illuminazione pubblica, un parco con i giochi per i bambini.
Quando Cobianchi salì sul palco, qualche giorno dopo, si bloccò intimorito: la piazza era piena, uomini donne e bambini che applaudivano lui, proprio lui, sotto il sole caldo del tardo pomeriggio di agosto. Posò lo Zingarelli a lato del leggio, dispose i due fogli sui quali aveva scritto il discorso insieme a Poletti, che faceva il maestro elementare, diede due tocchi con l’indice al microfono, e iniziò a parlare. Era uno di loro.
C’era stata qualche discussione, perché Cobianchi voleva inserire alcune parole che gli parevano particolarmente efficaci: ma alla fine Poletti lo convinse che non era il caso di circoncidere il parco giochi con una nuova recinzione, e tutto sommato poteva essere controproducente scagliarsi contro le cinque o sei signorine che, con il favore della notte e in abiti particolarmente succinti, andavano a procrastinare lungo la provinciale.
– Siamo uomini di mondo – lo convinse Poletti – non si può dire, ma i servizi sociali contano ancora qualcosa. Se minacci di cacciarle via gli uomini non ti votano di sicuro-
Parlò con voce pacata, nel silenzio dei compaesani. Solo a metà discorso un fischio dell’impianto di amplificazione interruppe le frasi. Si girò verso Poletti – C’è una subsonica – gli disse. Ma il maestro stava già armeggiando con cavi e volumi e in pochi secondi l’inconveniente fu superato.
Fu un trionfo. La breve campagna elettorale rese evidente che il favore dei cittadini di Soragna andava tutto a Cobianchi, e nemmeno i goffi tentativi di Ugolotti di screditarlo (“usa delle parole a cazzo”, in particolare) convinsero gli elettori a votare per la sinistra.
La sera dello scrutinio Cobianchi attendeva il risultato nella propria abitazione, insieme ai fedeli collaboratori e a don Ampelio, mentre la Dirce mugugnava affettando il salame.
Quando giunse la notizia, verso le undici di sera, si abbracciarono. La Dirce, che aveva votato Ugolotti, sparecchiò e gli uomini si alzarono per andare in piazza, dove già stavano affluendo i soragnesi festanti. Don Ampelio propose di usare la macchina della parrocchia, una Lancia Fulvia blu con quattrocentomila chilometri, ma ancora in discrete condizioni, come per l’elezione del presidente degli Stati Uniti.
– No – oppose deciso Cobianchi, che già si sentiva il piglio del sindaco – sono uno del popolo, andiamo pedissequamente –
Si incamminarono verso la piazza e un lunghissimo applauso accolse Cobianchi quando apparve all’angolo di via Roma.
Poletti gli aveva preparato il discorso, come sapeva fare lui, prendendo di qua e di là qualche frase. Cobianchi non aveva avuto modo di controllarlo prima.
Rimase perplesso solo quando, dopo i ringraziamenti, disse solennemente nel silenzio generale -Come scriveva Marco Aurelio, il momento più bello non è quando hai vinto e tutti ti abbracciano. Il momento più bello è la mattina della gara quando ti svegli e te la fai sotto. Quella sensazione di aver fatto tutto il possibile e di essere pronto, è una sensazione che chi gioca sporco non potrà mai provare –
Pochissime persone avevano potuto udire l’esclamazione di un ragazzino – Ma questa frase è di Lewis Hamilton – mentre don Ampelio si domandava come potesse suonare in latino “te la fai sotto”.