di Elena Gatti
Sognava acqua, acqua dappertutto. Sopra, sotto, ovunque. Era torbida, era inchiostro, viola profondo. Non ne vedeva la fine, non il fondo. La avvolgeva e non le liberava il respiro. L’affanno iniziava e sentiva lontanissimo, come quando la coscienza inizia il risveglio, il suo stesso sospiro. Si girava nel letto, scalciava le coperte, mentre lottava per risalire, ma era come se il peso del suo corpo la trascinasse giù e cadeva nel buio, come una pietra gettata al largo, pronta a sedimentare assieme ai piccoli granelli di sabbia che un tempo erano stati a loro volta pietra e roccia. Erano notti e notti che questa immagine la perseguitava.
Stancamente Emma si era alzata e aveva aperto le finestre di tutta la casa, come se la fame d’aria della notte appena trascorsa l’avessero lasciata in debito. Il tintinnare forsennato delle tazzine dal bar di fronte le ricordarono che era sabato e che quella sera avrebbe avuto ospiti. Già, che bella cena l’aspettava. Non ne aveva voglia, ma aveva continuato a rimandare per troppo tempo, inventando scuse trite e ritrite che ormai la spingevano pericolosamente verso il baratro della maleducazione malcelata. La sua proverbiale capacità di temporeggiare e procrastinare gli impegni gravosi le avevano valso in famiglia il nomignolo di Cunctator o più ironicamente di Quinta Fabia Massima.
Si sarebbe lanciata in un esperimento creativo, con il segreto desiderio di provocare un tale disgusto tra i commensali da non doversi più ritrovare a cena nessuno. Avrebbe impiattato un prestigioso nasello surgelato acquistato al supermercato, ma con salsina di arance ben ridotta e avvolto in croccante impanatura di polvere di caffè, mandorle e pistacchi. Decisamente un’impresa al di fuori della sua portata.
Il suo segreto in cucina era seguire pedissequamente le ricette, altrimenti era perduta. Guardava con venerazione le persone che ad occhio erano in grado di azzeccare le proporzioni, i tempi, le temperature e con sagace dolo sostituire gli ingredienti di cui era sprovvista la dispensa con altri altrettanto giusti, se non a volte migliori, per la riuscita del piatto.
Si era, quindi, prodigata tutto il giorno per pulire e rassettare la casa, aveva fatto la spesa e ora si accingeva a cucinare.
Emma fissava sbalordita la lista, senza capacitarsi di come avesse potuto dimenticare l’ingrediente principe del piatto ed essere scivolata su una banale retina di limoni. Erano arance, arance santo cielo quelle che doveva prendere! Le meningi lavoravano alacremente, quasi le sudavano con tutto quel pensare. Avrebbe messo il limone e pace. Ma no! Non poteva andare bene, il sughetto doveva quasi caramellare, con il limone sarebbe stato impossibile. Si sarebbe creata una concentrazione di acidità che avrebbe definitivamente cancellato qualsiasi dubbio sul fatto che gli ospiti non fossero graditi.
“Al diavolo!”, pensò, era contro tutti i suoi principi, ma non essendoci più tempo, avrebbe chiamato uno di quei servizi di consegna a domicilio, avrebbe arrotondato la spesa aggiungendo cose inutili e di cui al momento non aveva affatto bisogno solo per giustificare l’uscita di un povero cristo. Fortunatamente aveva sufficienti contanti per una lauta mancia che la consolarono un poco nel crescente senso di colpa.
Mentre si divorava le unghie della mano destra e girava intorno al divano del salotto, non potendo più fare nulla, se non attendere, si era messa ad ascoltare un po’ di musica. Stava giusto saltando un pezzo dei Subsonica, alla ricerca di qualcosa di rilassante, quando squillò il campanello e comparve sul ballatoio un timido ragazzo di colore, forse somalo. I tratti erano delicati e particolarmente eleganti, le ricordavano quel pilota inglese che non faceva che vincere le gare di Formula 1, togliendo qualsiasi forma di attesa o suspense per il risultato. Le era sempre stato un po’ antipatico, ma aveva cambiato idea dopo che l’aveva sentito suonare il piano in una trasmissione tv, davvero con grandissima sensibilità. E lo sguardo, in fondo, era triste. Questo ragazzino gli somigliava e triste lo era indubbiamente. Sembrava stanco, un mucchietto d’ossa, che neanche la guardava in faccia. Si stava slacciando l’ingombrante zaino che aveva in qualche modo fissato alla schiena attraverso un sistema complicato di corde elastiche ad ovviare al fatto che una delle tracolle fosse interamente strappata.
La spesa le venne consegnata e mancia e soldi sparirono nelle lunghe e magre mani, forse, somale, assieme ad un sospirato grazie.
Lo zaino aveva ripreso il suo posto, attraverso il complicato sistema implementato con pazienza per non perdere il prezioso carico.
Emma, quindi, aveva finito di cucinare appena un soffio prima che gli ospiti arrivassero.
La serata era trascorsa male, irritata da tutto quello che era accaduto prima, il giovane schiavo alla sua porta e gli amici di un tempo ormai remoto seduti alla sua tavola a cui non sapeva più cosa dire e con cui non aveva nulla da condividere. In compenso la cena aveva ricevuto i migliori complimenti, il suo subconscio non aveva lavorato bene e non aveva sabotato quello che intimamente Emma sperava di far naufragare. Le arance, le arance erano state il segreto del successo. Quando aveva aperto la busta della spesa, era rimasta un po’ sorpresa in realtà perché erano in un sacchetto di carta, non nella comune solita retina. Eppure avevano un profumo ed un sapore! Dolcissime e sugose.
Mentre rifletteva su tutto questo e raccoglieva stancamente i piatti nella lavastoviglie, urtò qualcosa con il piede. Era un misero quadernetto, arricciato negli angoli a furia di essere stato toccato e infilato a forza in posti che non gli si confacevano.
Non era suo, non l’aveva mai visto. L’aveva aperto ed era pieno zeppo di schizzi, disegni al lampostyl e poesie in un italiano decisamente privo di una sana ortografia, ma erano bellissime, intense, nostalgiche, dolenti. Appoggiò il quaderno sul piano della cucina, ormai esausta; avrebbe indagato su quell’oggetto l’indomani.
Acqua, acqua dappertutto, ma questa volta qualcosa scendeva sul fondo con lei. Era un piccolo quaderno, lo afferrava con una mano perché stava cadendo più veloce di lei, era pesante, molto pesante. Mentre lottava per risalire, aveva scorto un’ombra, vicina, e due grandi occhi scuri che la fissavano, le mani lunghe dell’ombra l’afferrarono e si svegliò.
Il quaderno, il quaderno… era del giovane Lewis Hamilton! Come aveva fatto a non comprenderlo subito?
Si era attaccata al telefono a più riprese in quei giorni, ordinando dallo stesso supermercato, fino a quando non si era ritrovata davanti il giovane africano. Quando gli aveva mostrato il quaderno, aveva liberato una scintilla nel suo sguardo. Gli aveva spiegato che non era riuscita a trattenersi dal leggerlo e aveva invitato il ragazzo a continuare a scrivere, aveva talento. Lo avrebbe aiutato, lei era insegnante, gli avrebbe dato delle lezioni, gratuitamente. Il giovane lì per lì aveva rifiutato, mosso forse da vergogna. Ma era tornato sui suoi passi ed era tornato inaspettato alla porta di Emma. Le aveva raccontato di sé, la sua storia, le sue origini, e che quella famosa sera era caduto in bici e aveva rotto lo zaino e le arance per Emma si erano tutte ammaccate. Fortuna aveva voluto che sua madre gli avesse mandato le arance del suo giardino. Il quaderno gli doveva essere caduto nella busta della spesa mentre le sostituiva di gran fretta nello zaino.
Dopo che l’aveva salutato, quella notte Emma si era ritrovata a camminare in un giardino di aranci. C’era acqua, ma era di fonte, limpida e ben ordinata scorreva tra i filari dell’aranceto.
Fissava le chiome intrecciate degli alberi che un sapiente giardiniere aveva tempo prima piantato, mentre un viale lungo ed ombreggiato, al riparo dal vento, le si apriva davanti. Una mano improvvisamente aveva stretto la sua. Il giovane somalo le camminava accanto e sorrideva. Era a casa.