Primo Maggio Novantaquattro

di Francesco Bonomini

“Strade che si lasciano guidare” il piccolo speaker bluetooth sul tavolino dell’obsoleto ufficio di reception cantava i Subsonica e Mario, seduto a fianco, passava la giornata a registrare gli ingressi, non tanto numerosi come meriterebbe, a un luogo che chiamare prestigioso è riduttivo.
L’autodromo Dino e Enzo Ferrari sorge sulle colline di Imola e per questa ragione è sempre stato considerato molto tecnico e selettivo. ‘Il piccolo Nurburgring’, così lo aveva immaginato Enzo Ferrari, che ne pose la prima pietra nel 1950. Nel 1970 venne intitolato a Dino Ferrari, figlio di Enzo, scomparso in giovane età una ventina d’anni prima. Alla morte del ‘Drake’ nel 1988, venne definitivamente intitolato a Dino e Enzo Ferrari.
La giornata passava piuttosto lenta e Mario alla reception non si poteva dire lavorasse alacremente. Nel mese di maggio il circuito era accessibile nei giorni feriali a pedoni o a ciclisti, anche se il numero di persone si era ridotto di molto a causa della pandemia. Sfogliava noiosamente il registro degli accessi, senza nemmeno curarsi troppo dei nomi in elenco.
Ad ogni persona che si avvicinava chiedeva le generalità e sottolineava con il pennarello il nome sul registro e ripeteva pedissequamente il rito centinaia di volte al giorno. Così fece anche quando l’uomo si avvicinò.
«Nome?»
«Lewis Hamilton»
L’impiegato appoggiò il lampostyl a bordo registro e alzò lo sguardo per vedere il volto di chi lo stava prendendo per i fondelli. Incrociando i suoi occhi, per un attimo trasalì. In piedi, di fronte a lui, un uomo di una trentina d’anni o poco più, dalla pelle scura e una leggera barba, in testa un cappellino con la visiera e un giubbotto di pelle nera.
«Sc-scusi?» balbettò l’impiegato «cioè… exc…use me!!» con uno sguardo che non doveva sembrare molto sagace
Dall’altra parte del vetro un sorriso e un tranquillizzante «don’t worry!»
Mario si riprese, sfogliò il registro e scorse il nome “L. Hamilton”
«Y-Yes…» rispose all’uomo stampando il biglietto di ingresso e consegnandolo.
«Thank you very much» si sentì rispondere dal candore del sorriso dell’interlocutore.
L’uomo si avviò verso il circuito a piedi e Mario lo seguì con lo sguardo completamente rapito, anche quando un nuovo visitatore gli si era avvicinato e gli aveva domandato «Ma era Hamilton, quello lì?»
Lui senza nemmeno avere capito la domanda rispose con un intelligente «Eh?»

Gerhard Berger entrò nella stanza e si rinchiuse in sé stesso in un angolo, al lato opposto in cui Ayrton Senna, suo grande amico, stava morendo. I rischi li conosceva bene e tutti se ne resero conto in quel maledetto weekend a Imola. Venerdì 29 aprile, Rubens Barrichello si era schiantato con la sua Jordan alla Variante Bassa, ma se l’era cavata con una costola incrinata e il setto nasale rotto. Sabato 30 Roland Ratzenberger vide staccarsi l’ala anteriore della sua Simtek e andò a sbattere alla curva Villeneuve, dove lasciò la sua vita. Domenica Primo Maggio, alla partenza del Gran Premio di San Marino, la Benetton di J.J. Letho si spense e venne centrata in pieno dalla Lotus di Pedro Lamy e pezzi delle due macchine volarono in tribuna ferendo alcuni spettatori.
Poi c’era il Tamburello, quella curva, contro cui la Williams di Senna si schiantò dopo la rottura del piantone dello sterzo. Una sospensione si staccò e lo colpì violentemente al capo, tramortendolo. In quel momento tutto si spense. Nulla era più importante, dal punto di vista sportivo. Non l’agonismo, non l’adrenalina della velocità, c’era solo un tramonto di un mito fatto di cuore, riscatto e speranza di un futuro migliore.
Da quel momento il mondo della Formula Uno cambiò, ci fu una presa di coscienza, il sistema di sicurezza su ogni gara da quel momento venne implementato, a garanzia dei piloti futuri, di tutti i nuovi Ayrton Senna, tra cui anche Lewis Hamilton

Di questo Lewis era consapevole e sapeva che aveva un debito di riconoscenza nei confronti di quel weekend di maggio novantaquattro.
Camminando verso il Tamburello rivedeva il grande polverone sollevarsi, i giudici di gara correre, le bandiere rosse sventolare. E quell’elicottero atterrare in pista, poi risollevarsi verso un lieto fine impossibile.
Sapeva che non poteva più procrastinare questo atto di gratitudine che aveva ormai in mente da diverso tempo. Si fermò davanti al muretto del Tamburello, la curva veloce non esisteva più, ora c’era una chicane che moderava la velocità, nessuno ha più incocciato contro quel muro e quell’ultima firma fu di Ayrton, come una immagine che si va a sedimentare in modo indelebile.
Ripensò ai rischi che si prende lui, rispetto a quelli di 27 anni fa. Come correre dentro a un carro armato invece che su una utilitaria.

Nel suo piccolo gabbiotto, Mario sottolineava nomi di persone che vengono e vanno, con la mente sempre a quell’uomo in cappellino e giubbotto di pelle.
I Subsonica continuavano a cantare
‘Strade che si lasciano guidare… Strade che si lasciano dimenticare”
Una fra tante non la riesci a guidare, una non si lascia dimenticare.

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