di Mattia Bragadini
Arrivava tutti i giorni alla solita ora, salutava con un cenno della mano e un sorriso, poi si sedeva allo stesso tavolo un po’ appartato vicino alla veranda, con il lago alla sua destra e alla sua sinistra la sala e quindi il bancone. Posava la borsetta sulla sedia vuota accanto a sé, una breve e distratta occhiata al cellulare prima di sostituirlo con un libro, e poi restava lì tranquilla in attesa, inconsapevole dell’eleganza con cui porgeva la sua bellezza al mondo.
Non sfiorava nemmeno il menù in carta plastificata, inserito con cura nella fessura di un portatovaglioli di legno, a dividere le bustine di zucchero e dolcificante da una parte e i piccoli tovagliolini di carta rossi con il logo del locale dall’altra. Sapeva già cosa ordinare.
Io la osservavo con la coda dell’occhio per circa un minuto, continuando a preparare il cocktail o il caffè marocchino che avevo tra le mani, lasciando che l’invadenza facesse posto alla premura e poi, trascorso questo tempo che mi sembrava allo stesso modo congruo e infinito, mi avvicinavo al suo tavolo, penna e taccuino, in attesa di ascoltare le stesse quattro parole.
“Un pastis, per favore”.
Lo diceva con lo stesso sorriso con cui salutava entrando, solo da molto più vicino, a pochi centimetri dal mio viso, un sorriso tutto per me, come di chi ritrova un amico e non già il cameriere del suo bar preferito. Mantenevo i miei occhi fissi nei suoi occhi azzurri fino all’istante prima che la gentilezza si trasformasse in maleducazione, la cortesia in disagio. Chi fa questo lavoro sviluppa un talento naturale per capire quando è il momento di distogliere lo sguardo, di fermarsi con le battute seppure vagamente allusive, quando è il momento di andarsene. Un leggero inchino, appena accennato, senza voler apparire cerimonioso.
Grazie, signora”.
Un altro sorriso. Avrei voluto che sapesse il mio nome, che mi rispondesse “Grazie a lei, Enrico” o addirittura “Grazie a te, Enrico”. Ma il mio nome non me l’aveva mai chiesto. Sorrideva. E me lo facevo bastare.
Quel pomeriggio era un giorno di pioggia e vento, teso e freddo come solo sulla riva del lago sa essere in certe giornate di autunno. Lei entrò col passo solo leggermente più affrettato dal solito, scuotendo l’ombrello fuori dalla porta e scacciando delicatamente con la mano le goccioline dal suo impermeabile beige. Mi rivolse il consueto sorriso e il consueto cenno con la mano, poi si sedette al solito posto e dopo essersi riscaldata al tepore del locale si liberò dell’impermeabile. Indossava una gonna nera fino al ginocchio e stivali ugualmente neri con un tacco non troppo alto, un maglione di lana rosa lavorata grezza che tradiva la sua morbidezza anche solo guardandolo da lontano, e un prezioso foulard di seta stampata annodato con studiata noncuranza attorno al collo. Si sistemò con le mani i capelli biondi rimasti quasi interamente intatti nonostante la violenza di vento e pioggia, posò la borsetta sulla sedia accanto e cominciò a guardare la poggia battente sferzare la superficie del lago che il moscendrino stava increspando come una mareggiata nel Pacifico. Prese il telefono dalla borsetta e lo lasciò sul tavolo, buttando di tanto in tanto un’occhiata non troppo distratta al display, ma non aprì il solito libro. Un brivido mi percorse la schiena proprio mentre, dopo aver atteso il solito minuto, avvicinandomi al suo tavolo con l’inutile taccuino, la verità mi apparve in tutta la sua nitida violenza. Stava aspettando qualcuno.
“Un pastis, per favore”.
“Grazie, signora”.
Cominciai a preparare il suo drink, ma ogni tanto le lanciavo un’occhiata obliqua nel tentativo di vedere se avrebbe riposto il telefono e ripreso l’Hemingway che stava leggendo ieri o quel Camus che le avevo visto solo un giorno qualche tempo fa, e che sicuramente non aveva terminato ma invece abbandonato, chissà perché, forse per noia o per mero disgusto verso la peste. Presi la bottiglia di Ricard 51, ma intanto tenevo sotto controllo la porta di ingresso, attendendo l’arrivo del misterioso appuntamento della mia altrettanto misteriosa cliente. Non solo lo immaginavo, mi sembrava proprio di vederlo: un signore distinto, più grande di lei, sopra ai quaranta, un businessman sicuro di sé, affascinante, certo, un “vincente”. Lo vedevo nel suo completo fumo di Londra, la cravatta regimental perfettamente annodata in un doppio Windsor, il colletto della camicia immacolato e inamidato, un paio di baffi folti a completare un’espressione severa e autorevole, l’immancabile ventiquattrore in mano, i modi spicci e decisi. Riempii con il liquore un quarto di tumbler alto e vi immersi tre cubetti di ghiaccio, stappai una bottiglietta di Evian e ne versai il contenuto in una piccola caraffa di vetro da un quarto di litro per poi posare bicchiere e caraffa su un vassoio d’argento. Presi infine un piattino da aperitivo e vi adagiai un vol-au-vent con salsa di gamberi, un quadretto di quiche lorraine e una capasanta gratinata appena uscita dalla cucina, misi tutto sul vassoio accanto al drink insieme con una forchettina da frutta ugualmente d’argento e mi preparai al momento più bello della giornata.
E proprio in quel momento la porta si aprì, però a comparire non fu un azzimato uomo di mezza età con lo sguardo glaciale e un sorriso killer, ma una giovane donna, probabilmente coetanea della ragazza del pastis. Una volta abbassato il cappuccio del giaccone con cui si era protetta dalla pioggia, rivelò una folta chioma nera, assottigliata dall’acqua abbondante che le aveva schiacciato diverse ciocche sulla fronte. Nel vederla in quelle condizioni, Lei non riuscì a trattenere una risata: aveva un suono come di vetri che tintinnano e non potei fare a meno di sorridere a mia volta, molto più per avere realizzato che la ragazza stava aspettando un’amica e non un fidanzato che per la comicità della scena. Decisi di attendere che le amiche si salutassero e che la nuova arrivata prendesse posto e recuperasse il respiro, dopo l’evidente corsa sotto l’acqua che l’aveva ridotta in quello stato. Attendere, ma non troppo: controllavo infatti che il ghiaccio nel bicchiere non si stesse sciogliendo troppo velocemente. Quando ebbero esaurito i convenevoli e giudicai sufficientemente educato avvicinarmi, i ghiaccioli ancora al loro posto, rivolsi un leggero inchino alla ragazza appena entrata per comunicarle, come da manuale, che avevo registrato la sua presenza e infine servii il pastis e gli stuzzichini. Come al solito ebbi in cambio un sorriso, tutto mio, e in primissimo piano.
“E per lei, signora?”
“Le même”
Preparai il secondo pastis con tutta la leggerezza del mondo. La filodiffusione del locale stava ora trasmettendo quel pezzo di Leonard Cohen, e mentre mi lasciavo trasportare dalla musica Lei adesso entrava nel bar in un caldo e assolato pomeriggio di maggio, la sua figura stagliata in controluce sullo sfondo del lago ora calmo e piatto come un pianoforte a coda. Un pianoforte a coda che suonava per noi, e lei danzava, danzava in un abito leggero di preziosa organza rosa, le spalle nude, una morbida fusciacca di raso a esaltarne il punto vita, un paio di sandali gioiello a impreziosirne i piedi che si muovevano agili sulle note di Dance me to the end of love. Io non indossavo più il mio gilet da cameriere ma un elegante smoking in fresco di lana con i revers in seta, una gardenia all’occhiello, i capelli impomatati all’indietro come Clark Gable, le scarpe nere, lucidissime, che adesso si muovevano a tempo con i passi della ragazza, e poi le mie braccia. Le mie braccia cingevano la vita di Lei e la guidavano al tempo di quell’antica danza greca che Cohen aveva riscoperto chissà dove.
Lascia che possa ammirare la tua bellezza quando tutti i testimoni saranno andati via, lascia che ti senta muovere come si muovono a Babilonia, mostrami lentamente ciò di cui solo io conosco i confini, fammi ballare al suono della fine dell’amore.
Il giorno dopo il moscendrino, vento tanto violento quanto passeggero, aveva già smesso di torturare le coppiette a passeggio sul lungolago, i caffè all’aperto di Piazza Grande e il Santuario della Madonna del Sasso che ci dominava e proteggeva dall’alto. Lei entrò alla solita ora, il solito sorriso, il solito pastis, il solito rituale. Ma intravidi un’ombra nel suo sorriso, quando le porsi il suo drink, accompagnato questa volta da un piccolo salatino ripieno di roquefort, uno spicchio di tortilla patata e cipolla e un quadratino di pita ricoperto di tzatziki. Era la serata internazionale del locale, e servivamo specialità da tutta Europa. Rimasi a fissare quello sguardo, che mi era apparso malinconico, fino al limite delle più elementari norme di educazione e buona creanza, e poi mi ritirai dietro al bancone con due grammi di preoccupazione ad appesantire il mio vassoio vuoto. Poco dopo entrò l’amica del giorno precedente, ma prima ancora che mi potessi avvicinare per prendere la sua ordinazione, la ragazza stava gesticolando con grande agitazione verso di Lei, parlava un francese veloce e con accento del nord che faticavo a capire e, ricomponendomi, mi dissi che tutto sommato quelli non erano certo fatti miei. Mi detti un contegno e feci per muovere i primi passi verso il tavolo, ma proprio in quell’istante la ragazza francese in un impeto d’ira lanciò verso di Lei un libriccino, forse un piccolo diario, e poi se ne andò furiosa, continuando ad imprecare con una sequela di parole che non comprendevo ma di cui non potevo ignorare il tono rabbioso.
Mi immobilizzai a metà strada tra il bancone e il tavolo, incapace di fingere di non aver visto la scena come imporrebbe il manuale, il mio sguardo fisso sulla ragazza del pastis, che stava cercando di raccogliere da terra quel piccolo quaderno che aveva scatenato la reazione dell’amica. Amica? Era solo una mia supposizione, una libera interpretazione di un appuntamento tra due donne in un giorno di pioggia, chissà quali fossero veramente i loro rapporti. Ero lì, impietrito, imbarazzato dalla mia stessa espressione che sapevo stava comunicando il mio disagio al mondo intero ma soprattutto a Lei. Lei se ne accorse e dopo aver riposto il taccuino nella sua borsetta, riuscì a sorridermi, credo con uno sforzo sovrumano, e a farmi capire, senza nemmeno dovermi parlare, che si scusava tantissimo per quell’episodio increscioso e che comunque andava tutto bene.
Tornai dietro al bancone a preparare i vodka tonic di una coppia seduta dalla parte opposta del locale, ma mentre armeggiavo con la Grey Goose continuai a controllare le mosse di Lei, che stava digitando qualcosa sul suo cellulare, forse un messaggio. Certo, un messaggio. Un messaggio di aiuto, probabilmente. Nonostante mantenesse il suo contegno e la sua classe, era evidentemente turbata dall’accaduto, il suo linguaggio del corpo la tradiva. Temevo che se ne sarebbe andata dal locale, ero terrorizzato dall’idea che forse non sarebbe tornata mai più. Mi guardai intorno e decisi all’istante di infrangere tutte le regole: avvicinarmi a Lei, parlarle, chiederle il suo nome, addirittura il suo numero di telefono. Ero pronto a mettere a repentaglio il mio lavoro, la mia stessa vita, l’unica cosa che sapevo fare al mondo.
Volevo fare tutto questo ma mi dovetti bloccare nuovamente: all’improvviso entrò nel locale un uomo che non avevo mai visto prima, né al locale né in città, e che si diresse immediatamente al tavolo di Lei. Lo sconosciuto non assomigliava per niente all’uomo che avevo immaginato come suo cavaliere: vestiva in modo ordinario, per non dire sciatto, con uno spezzato malamente assemblato tra le bancarelle di un mercato e un cappotto dozzinale dal taglio discutibile. Solo la freddezza nello sguardo era compatibile con l’idea che mi ero fatto dell’amante della ragazza del pastis, ma non c’era alcun fascino in lui, né bellezza, né l’eleganza necessaria per accompagnare una donna come Lei.
Si scambiarono poche parole, a bassa voce, le espressioni tese, senza alcun contatto fisico. Dopo pochi minuti, lei lasciò dieci franchi sul tavolo e se ne andarono insieme. Rimasi attonito a fissare quella porta per non so quanto tempo: fu solo al terzo, o forse al quarto “Mi scusi!” pronunciato a voce più alta da un tavolo distante che finalmente mi riscossi e tornai al mio posto a preparare quel Bloody Mary che ancora stavano aspettando.
Passarono un paio di giorni in cui Lei non venne al locale e io mi ero ormai rassegnato al fatto che non l’avrei vista mai più. Ma il pensiero di Lei restava una presenza fissa e costante in ogni momento della mia giornata. Mentre preparavo un espresso ridevo di me stesso e mi davo dello stupido illuso per il solo fatto di aver osato immaginare di parlarle, figuriamoci andare oltre; alle prese con un Negroni, tornavano invece ad assalirmi i dubbi sul suo destino. Chi era quella ragazza francese? A chi apparteneva quel diario e cosa c’era scritto di tanto grave da scatenare una simile reazione? Chi era quell’uomo che se ne era andato con Lei? Non mi arrendevo all’idea che quella persona così trasandata potesse essere il suo fidanzato. Ma allora chi? Un amico? O qualcuno che voleva farle del male? Forse la ragazza del pastis era in pericolo.
Finché il terzo giorno all’improvviso ricomparve nel locale. Era raggiante. La temperatura più alta della norma, che di colpo aveva inaspettatamente riscaldato quelle giornate d’autunno sul lago, l’avevano indotta a indulgere in un abitino quasi primaverile, leggero e floreale, indossato con un paio di scarpe di corda senza calze, i capelli raccolti all’indietro da un giocoso ed adolescenziale cerchietto. Ma era il suo sorriso ad essere ancora più incantevole del solito, gli occhi le brillavano e il suo viso emanava un’aura di serenità come mai le avevo visto prima quando entrava nel bar. Trattenni a stento la mia euforia quando, trascorso il canonico minuto, mi avvicinai per risentire finalmente il suono della sua voce.
“Un pastis, per favore”.
“Grazie, signora”.
Tornai al bancone quasi volteggiando per la felicità e non appena mi voltai nuovamente verso la sala, già pronto a cogliere un altro frammento del suo sorriso, un altro bagliore nel suo sguardo, notai che stava educatamente richiamando la mia attenzione con una mano appena sollevata, e con l’indice mi stava invitando verso di Lei. In un turbine di emozione e confusione, mi guardai attorno per sincerarmi che stesse veramente chiedendo di me e poi, come ipnotizzato, camminai lentamente verso il suo tavolo. Lei mi chiese di avvicinare il mio orecchio alla sua bocca, invitandomi deliberatamente a invadere il suo spazio, e finalmente al riparo da orecchie indiscrete mi sussurrò:
“Enrico, sia gentile. Potrebbe per cortesia aiutarmi a seppellire il cadavere di mio marito?”