Il compleanno

di Massimiliano Renaud

“Siamo in ritardo.”
“Di un minuto e ventotto secondi.”
“Quando ti interessa arrivare puntuale ti ritieni in ritardo anche se arrivi un quarto d’ora prima. E mi rompi le palle.”
“Se poi prendo la multa la paghi tu, però.”
“Detto da uno che attraversa i centri abitati a una media di centoventi chilometri all’ora non sembra una motivazione molto credibile.”
“Senti, per le prossime tre ore sarò prigioniero di urla, pianti, noia e maleducazione, non credo che due minuti possano fare la differenza.”
“Ma finiscila, cosa ci sarà poi di male? Sono quattro anni che tua figlia va in questa scuola e non conosci il nome di nessuno degli altri genitori.”
“Non conosco nemmeno quelli delle maestre, se è per quello.”
“Ecco, vedi che ho ragione? Ma non senti il bisogno di espandere un po’ i tuoi orizzonti sociali? Di conoscere qualcuno che non viva nel tuo mondo da almeno vent’anni, quota minima di frequentazione per essere considerato tuo amico?”
“No.”
“Ah no? E perché?”
“Lo sai benissimo, perché. Perché odio i convenevoli forzati, le frasi di circostanza, i sorrisi ingessati, le domande di routine fatte senza aspettare una risposta, le disquisizioni politiche a casaccio su Zingaretti, Di Maio o Salvini, i discorsi sull’invasione degli immigrati, sull’Isis, sul gossip, sui No Vax e sulla Juventus penalizzata dal VAR… No, tesoro, non me ne frega niente di espandere gli orizzonti sociali.”
“Tu sei un orso, un uomo delle caverne! E non sono nemmeno sicura che sia così, se fossi nato cinquemila anni fa, probabilmente il mondo ti sarebbe sembrato comunque troppo popolato.”
“Si.”
“Beh, fattene una ragione, oggi dovrai per conoscere qualcuno, che ti piaccia o no.”

Raggiunta la location della festa, imbocco un vialetto sterrato che porta a un piazzale dove sono già parcheggiate una decina di auto.
Con la scusa di calcolare l’esatta evoluzione delle ombre degli alberi in modo da mantenere l’auto al riparo dai raggi del sole il più a lungo possibile, continuo a girare in cerchio nel parcheggio semivuoto fino a quando le nocche della mano sinistra di mia moglie non agiscono con violenza sul mio quadricipite destro.
“Il prossimo ti arriva nelle palle.”
“Qui dovrebbe andare bene.”
Nonostante la minaccia alla mia virilità, insisto nel penoso tentativo di prendere tempo e fingo per tre volte di mancare la lisca di pesce maledicendo un riflesso inesistente che mi preclude la vista, esco dall’auto per valutare la distanza da un muretto talmente lontano da non rischiare di colpirlo nemmeno mirandolo e poi, non avendo più nulla da inventare, spengo il motore.
Ogni due passi, lascio cadere a terra nell’ordine: chiavi, sigarette, accendino, occhiali, cellulare, fede nuziale, due chiavette usb, una penna, il portafogli e fazzoletto da naso, solo per guadagnare qualche secondo dalla raccolta di ogni oggetto.
Svuotate tutte le tasche di giacca e pantaloni, strattonato e insultato dalla consorte, sono costretto ad arrendermi.
Espandi gli orizzonti sociali, certo, per le donne è facile, loro si sono conosciute alle riunioni di classe, al ritiro bimbi delle 15.30 o tramite il semi satanico gruppo di Whatsapp “Le mamme della classe”.
E poi, hanno anche un altro grande vantaggio: il non dover sudare freddo per trovare un argomento di conversazione con le loro simili: durante i primi trenta minuti di dialogo, infatti, l’oggetto del discorso è sempre e soltanto uno: le malattie dei figli.
“Ciao cara, come stai?”
“Tutto bene, tesoro, a parte queste influenze che ci sono in giro!”
“Et voilà!” mi lascio sfuggire nella totale indifferenza delle signore.
“Ah, non dirlo a me, pensa che Francesca, solo due giorni fa, aveva quasi 37.1 e quel cretino del pediatra continua a dirmi che non mi devo preoccupare.”
“Per l’amor di Dio, non parlarmi di pediatri, al mio continuo a ripetere che Luca dà almeno tre o quattro colpi di tosse al mese, e lui insiste nel dichiarare che è una cosa da nulla! Ma io ho letto su internet che una tosse così insistente potrebbe essere un inizio di tubercolosi!”
“Hai proprio ragione, cara, ma io ho imparato a non fidarmi di questi medici so tutto io e appena vedo un sintomino volo in pediatria! Pensa che la figlia di un’amica, qualche giorno fa, ha iniziato a rimettere e non ha smesso per almeno un’ora.  Ormai in famiglia erano tutti sicuri si trattasse di malaria e direi era un dubbio più che lecito!”
“Ma certo che lo era! E alla fine, com’è andata?”
“Beh, alla fine è venuto fuori che la bimba si era bevuta quaranta centilitri di Chanel numero 5, ma resta il fatto che non bisogna mai abbassare la guardia, i virus sono predatori sempre in agguato…”
“Sì infatti io…”
Allibito, mi allontano mentre il gentil sesso continua a ingigantire patologie come neanche i pescatori domenicali.

Eccoci, sta arrivando uno dei tanti padri a testa bassa, sicuramente verrà in cerca di solidarietà maschile.
“Ciao, sono Arturo, il padre della festeggiata.”
“Ciao, sono Roberto.”
Il mio interlocutore, un uomo alto, spettinato, timido e del quale ho già dimenticato il nome, tenta di far apparire qualche crepa nel ghiaccio che ci divide, abbozzando una classica considerazione meteorologica.
“Madonna, che caldo…”
Anche se scarsamente stuzzicato dalla poca originalità dell’argomento, volgo lo sguardo verso il sole come ad indicargli quale sia la fonte di tutto quel misterioso calore, e sottolineo l’acutezza della sua osservazione sbattendo ripetutamente dall’alto in basso il lembo inferiore della polo e pronunciando un lapidario: “eh già…”
Dopo tre minuti buoni, durante i quali un drammatico silenzio domina la scena, appaiono due coppie di anziani dall’andatura incerta e con l’inconfondibile sguardo da nonni.
Alla vista della breve parata della terza età che avanza caracollando, il tizio mi saluta cordialmente e si dirige verso quelli che presumo siano i nonni della festeggiata, interrompendo l’angoscioso silenzio che ci tiene prigionieri.
Ambra, grazie a una soffiata di mia moglie ho scoperto il nome della madre della festeggiata, e il marito, accolgono con un saluto i rispettivi genitori e forniscono loro alcuni fondamentali aggiornamenti sull’andamento della crescita della bambina, sulla quantità di cibo che mediamente ingerisce a ogni pasto e sulla stupefacente regolarità con cui scarica tutto quanto nelle fogne della città. Mostrano loro qualche foto di repertorio conservata sui cellulari, e accompagnano lo slideshow con didascalie vocali osannanti le qualità indiscutibili di ballerina, pittrice, scrittrice, lettrice, ciclista senza rotelle e regina del fai da te della loro meravigliosa figliola. Gaia, intanto, osserva tutta la scena con due falangi infilate nel naso, un pezzo di legno in bocca e uno sguardo talmente assente da rendere totalmente inverosimili le lodi che stanno tessendo in suo onore.
Nel frattempo, il flusso di famiglie prosegue senza sosta e la cosa che più mi colpisce nell’osservare l’incedere degli invitati è lo sguardo senz’anima dei padri, al quale sembra essersi ispirato Moravia per dare il titolo al suo capolavoro del 1960.
Mentre oltrepassa insieme alla prole e al marito la zona appartata in cui ho trovato rifugio, una signora sui quarant’anni, dallo sguardo torvo, identifica la mamma della festeggiata e la indica al coniuge pronunciando tre parole che risuonano chiare alle mie orecchie: “Ecco. Quella. Stronza”.
Incuriosito dalla scia di astio che quella donna si lascia dietro, seguo i nuovi arrivati e li raggiungo giusto in tempo per sentire la risposta del marito che, annuendo, rincara la dose ricordando che già da ragazzini, a casa, Ambra era considerata insopportabile dalla totalità della famiglia e dal popoloso quartiere in cui vivevano.
Quindi, penso, questo dev’essere lo zio della festeggiata.
Immerso in questo breve ragionamento, vendo sorpreso dal fratello della stronza che si volta di scatto e tende il braccio verso di me.
“Piacere, Giovanni”.
“Piacere, Roberto”.
“Lei è il padre di qualche bambino?”
Vorrei rispondere che sono un pedofilo evaso dal carcere in crisi d’astinenza, ma decido di essere più accondiscendente.
“Si, mia figlia è Francesca, quella che sta scendendo ora dallo scivolo.”
Prima che il tizio, del quale ho prontamente rimosso il nome, possa rispondere, la neo consacrata stronza insopportabile, si scolpisce in faccia un sorriso da poster falso come due euro di tetrapak e si avvicina per fare gli onori di casa.
“Ciao fratellone! Come stai?” Ulula ignorando completamente la nipote e la cognata, che china la testa nella borsetta fingendo di cercare qualche oggetto diventato improvvisamente invisibile.
“Mh. Non c’è male” risponde lui aggiustandosi gli occhiali sul naso.
“E tu, Simona, tutto bene? La tua dieta inizia a dare risultati?” Chiede Ambra, mentre un ghigno malefico le sboccia sul volto sostituendo il sorriso da poster.
“Non mi lamento, grazie, in effetti ho già perso qualche etto. E tu? Come stai? Le sedute con lo psichiatra iniziano a dare i loro frutti?” Controbatte la cognata, con la dolcezza della panna scaduta da un mese.
“Certo! Stai tranquilla che non sono matta come dicono.” Ribatte Ambra che, a causa di un repentino innalzamento della pressione arteriosa, è vittima di un’epistassi nasale tamponata in emergenza con il polsino della camicetta.
Fiutando la disgrazia imminente, il marito di Simona nonché fratello della stronza, tenta di mettere fine all’alterco.
“Dai, Simo, andiamo a bere qualcosa, ti prego.”
La moglie, inizialmente recalcitrante, cede alla supplica del consorte e si allontana dalla stronza insopportabile salutandola, senza farsi notare, con un tipico gesto di pace: pugno e dito medio alzato.

Dopo il commovente siparietto familiare, un dinamico trio sbuca dal parcheggio salvandomi dall’inevitabile incedere del tedio: alla testa del gruppo una donna visibilmente trafelata, un marito al seguito con rigorosa testa bassa e un bambino anarchico che prende a calci i cestini della spazzatura.
Terminato il briefing sulle seimila patologie che i nostri figli potrebbero contrarre, basato sulle inattaccabili fonti mediche del World Wide Web, mia moglie torna al mio fianco.
“E questi tre?”
“Sono i Gramellini.”
“Il cognome mi ricorda qualcosa.”
“Sarà per la storia del morso.”
“Il bambino ha morso un compagno di scuola?”
“Te l’avrò detto almeno tre volte, ma quando ti parlo mi ascolti?”
“Dipende.”
“Si, ha morso qualcuno, ma non un compagno, purtroppo.”
“Purtroppo?”
“Si, purtroppo, perché ha morso il cane della maestra di matematica.”
“Oddio…” non riesco a trattenere una risata.
“Non capisco cosa ci sia da ridere, è una tragedia!”
“Non sto ridendo, stavo solo pensando come dev’essere il sapore del cane crudo…” rido ancora di più.
“Cretino…”
“Dai, sono cose che succedono, nel mondo animale…” rido come un pazzo.
“Smettila, stupido!”
Non ribatto ma continuo a ridere.
La donna, con l’espressione della Vergine Maria durante la Via Crucis, esordisce con la frase che quasi tutti i possessori di figli pronunciano per scusarsi dei costanti e imperdonabili ritardi con cui si presentano a qualsiasi appuntamento:
“Scusate il ritardo ma, sapete com’è, con i bambini non riesci mai a fare i conti…”
Vorrei farle notare che le cinquanta persone che la circondano sono riuscite ad arrivare un’ora fa nonostante anche le loro case siano infestate dai demoni della dilazione cronica travestiti da figli, ma lascio perdere…
Dopo le scuse, i ritardatari disperati si siedono a testa china vicino agli altri genitori fingendo di ignorare il fatto che il loro figliolo, in meno di un minuto, ha rotto otto bicchieri, sputato sui panini del buffet, librato nell’aria un paio di bestemmie, infilato una manciata di sabbia in bocca a una coetanea e scalciato il bastone di un’anziana signora facendola stramazzare al suolo.
La genitrice, dopo che il giovane cavernicolo uscito una decina d’anni fa dal suo grembo ha trascinato a terra un terzo del buffet utilizzando la tovaglia come liana, non riesce più a fingere che non stia succedendo nulla.
Mentre vomita una serie di originali giustificazioni al comportamento criminoso dell’infante, si volta verso il marito in cerca di sostegno e lui, con il mento che sfiora lo sterno, annuisce avvilito confermando che il loro bambino si è inspiegabilmente trasformato in un piccolo clone di Charles Manson e che, arrivati a questo punto, teme restino soltanto due modi per porre rimedio a quella situazione: denunciarlo alla pubblica autorità, o abbatterlo.

Rigenerata la mia autostima di genitore, mi defilo salutando tutti con l’espressione di chi deve raggiungere un dato posto entro pochi secondi per una questione di vita o di morte, ma prima ancora di aver raggiunto la mia postazione da osservatore, dal parcheggio sembra arrivare una nuova attrazione.
Torno da mia moglie.
“E quelli? Chi sono? Gli Orfei?”
“Sono gli Esposito, forse un po’ vistosi, ma sono brave persone.”
“Vistosi? Hanno più oro addosso di Snoop Dogg.”
“Chi?”
“Lascia stare.”
“Su, smettila di brontolare e andiamo a salutarli, signor polemica!”
Dopo aver abbandonato un carro armato travestito da Suv, un uomo in completo bianco con camicia slacciata che mette in mostra una smisurata croce d’oro su un petto con vello da primate, e una donna compressa in un miniabito leopardato che incede in equilibrio precario su un sandalo rosso tacco quindici degno di un set del Maestro Siffredi, avanzano verso il fulcro della festa.
Alle spalle della vistosa coppia incedono due piccoli esseri, ricoperti dalla testa ai piedi di capi tanto griffati quanto pessimamente abbinati, che trasportano almeno trecento euro di doni per la plebea festeggiata mentre maneggiano due I-Phone 11.
“Patrick! Jennifer! Smettetela con quei telefoni e venite a salutare la vostra amica Gaia!”
Patrick e Jennifer. Eh beh, d’altronde, cosa puoi aspettarti dagli emuli di Don Johnson e Pamela Anderson…
I due giovani finti anglosassoni abbandonano di malavoglia i touch screen e consegnano i loro abnormi presenti alla festeggiata, per poi rifugiarsi in un angolo del parco a continuare la visione di video su Youtube.
Dopo i poco sentiti saluti di rito, Don e Pam si avvicinano al buffet da cui sto pescando panini e pizzette assortite e si guardano intorno con malcelato disprezzo nei confronti degli altri, all’apparenza indigenti, invitati.
Distratto dal generoso decolleté griffato Saratoga della donna, non mi accorgo che una mano abbronzata chimicamente compare all’altezza del mio fianco sinistro.
“Piacere, Carmine.”
“Piacere, Roberto. Come va?”
“Bene dai! A parte questo governo non eletto dal popolo che si mangia tutto…”
Eccoci con la politica ad minchiam.
“Eh già, non eletto dal popolo…”
“E poi, finché ci sarà la sinistra al potere, continuerà l’invasione degli immigrati che ci rubano il lavoro…”
Bene, anche la questione immigrati l’abbiamo sviscerata. Direi che mancano solo la Juve e il VAR.
“…meno male che c’è la Juve che vince dai, nonostante il VAR.”
Una prorompente risata diabolica mette in mostra quattro denti d’oro che immagino di staccare a pugni per farne un paio di orecchini per mia moglie, ma opto ancora una volta per una risposta civile.
“Si, meno male. Ti chiedo scusa ma ho il cellulare che vibra nella tasca, dev’essere il lavoro.”
“Alla domenica?”
“Per chi fa il mio lavoro non esistono domeniche…”
“Ah no? E che lavoro fai?”
“Ciao, alla prossima…” come cazzo ha detto che si chiama? Vabbè… “scusami ancora!”

Lasciando per sempre irrisolto il mistero sulla mia professione, mi allontano fingendo di contrattare la chiusura di un fantomatico affare con il mio muto interlocutore fatto di plastica, touch screen e microchip assortiti.
Torno a defilarmi in cerca di pace ma il parcheggio, come il dietro le quinte di un teatro, sembra non voler smettere di regalare attrazioni.
Un terzetto, che sembra reduce dal leggendario concerto di Woodstock, scende da un’auto color fango impolverato che avrà circa la mia età e imbocca il vialetto ghiaiato.
Cerco mia moglie con lo sguardo per avere notizie sulla banda di hippy, ma vedendola impegnata con la stronza insopportabile rinuncio alla raccolta di informazioni.
La madre sfoggia un capello lungo diversamente pulito e con riga in mezzo, la classicissima coroncina di fiori, una canotta verde acido e un gonnellone dal quale sbuca l’immancabile Birkenstock a ciabatta, altrimenti nota come calzatura anti-erezione.
Il figlio, che li segue a una decina di metri accompagnato da tre cani, ha dei graziosi lineamenti a dispetto dei suoi abiti da busker, a testimonianza del fatto che sotto lo strato di polvere e bigiotteria facciale almeno uno dei due genitori dev’essere anche bello.
Il padre porta lunghi dreadlocks che sfiorano l’osso sacro, quattro piercing che gli scalfiscono la faccia e una maglia di Jimi Hendrix afflosciata su un pantalone di cotone iridescente. Ai piedi, un orrendo sandalo in pelle dal quale fanno capolino dieci dita che probabilmente non vedono acqua corrente da un paio di settimane.
Quando la distanza fra noi si riduce a un paio di metri, un acido aroma ascellare mi stordisce a tal punto da non farmi accorgere che cinque unghie annerite si protendono verso di me.
“Cioè, piacere, cioè, sono Samuel.”
Trattenendo il respiro, allungo la mano.
“Piacere, Roberto. Tutto bene?”
“Non mi lamento, la vita mi sorride. Sono piuttosto sciallo.
“Scusa?”
Sciallo. Rilassato, sereno.”
“Ah, certo, sciallo. Sono contento per te.”
“E tu?
“Io? Guarda, in questo momento credo di trovarmi a qualche anno luce dall’essere sciallo.”
“Qualcosa non gira, bro?”
“No, anzi, direi che c’è qualcosa che gira anche troppo, ma è una cosa passeggera, stasera sarà tutto finito.”
“Senti bro, fra poco faccio un salto in parcheggio, se vuoi ho un po’ di sciallo verde anche per te… He…He…he…”
“Ehm, no, grazie, magari la prossima volta. Allora ti saluto…” merda, come cazzo si chiama… “…bro, e buon divertimento…”
“Bella! Anche a te, Robby!”
Cazzo, perfino Bob Marley si ricorda il mio nome…
Mentre si allontanano noto che, da buoni contestatori del capitalismo Disneyano, il dono che consegnano alla piccola Ricchetti non è il solito giocattolo venduto in grande distribuzione ma un arco artigianale, corredato da faretra a spalla e alcune frecce, fabbricato interamente a mano dagli abitanti della comune in cui credo viva la famiglia Joplin.
Gaia, poco avvezza all’uso delle armi, testa immediatamente il nuovo regalo e scocca un dardo fra i capelli argentati della nonna materna che inizia a lanciare anatemi puntando l’indice in direzione della volta celeste.

La festa procede senza altri sussulti e dopo un paio d’ore di nulla cosmico in cui cerco in ogni modo di non espandere i miei orizzonti sociali, torno a quel che resta del buffet, ridotto ormai a qualche panino diviso a metà dal quale è stata trafugata la farcitura e a un paio di pizzette sedotte con un morso e poi abbandonate.
Quando il sole inizia a tramontare, arriva finalmente il momento del taglio della torta, degli auguri in coro e delle angoscianti foto di gruppo: dalle mie precedenti esperienze di feste di compleanno, ho imparato che si tratta del preludio alla fine dell’agonia.
La pasticcera del circolo che ospita la festa, dopo un cenno perentorio di Ambra, alias stronza insopportabile, si materializza come l’Arcangelo Gabriele portando fra le mani una maestosa costruzione a tre piani, sovrastata da un cumulo di panna montata e dall’immancabile statuina di Elsa, la protagonista dell’ennesimo stupro di fiabe eseguito dalla Disney attraverso la creazione del più sopravvalutato lungometraggio d’animazione della storia del cinema.
Mentre avanza tra le esclamazioni di stupore del pubblico per la costruzione degna di Renzo Piano, la rotonda pasticcera, ignara del dramma che sta per consumarsi, non si accorge di un sasso che il subdolo Mini Manson ha pensato di lanciare in mezzo al vialetto proprio un attimo prima del suo passaggio.
La ciabatta da camera si incaglia sotto al piccolo macigno facendo inciampare la povera donna che, nonostante l’immane sforzo profuso in un colpo di reni ben al di sopra delle sue possibilità fisiche, non può evitare il crollo del terzo piano della costruzione e il relativo tuffo della miniatura della regina delle nevi all’interno del laghetto dei pesci rossi.
Gaia, davanti al tragico volo della sua eroina, lancia un ululato disperato seguito da quello dalla madre. La stronza insopportabile, dopo essersi sfilata le scarpe con un unico colpo di caviglie, si getta nello stagno nel vano tentativo di salvare gli ottanta euro di statuetta fabbricata in unico esemplare da un noto pasticcere della città, anche a costo di sacrificare la propria dignità.
Dopo qualche secondo di apnea nell’acqua torbida, Ambra Ricchetti riemerge dal fango come Rambo tra i Viet Cong, ma al posto di un coltello da caccia insanguinato stringe tra le mani una poltiglia bianca e azzurra.
La stronza insopportabile, con il volto trasfigurato dalla rabbia, perde le sembianze umane per assumere quelle di un Tirannosaurus Rex con il dono della parola e inizia a far cadere una pioggia di insulti, ben oltre i limiti della civiltà, sulla povera signora Elvira.
La pasticcera, terrorizzata dall’essere mitologico metà dinosauro e metà stronza che gli si para davanti, posa ciò che resta della torta su un tavolo e scappa in lacrime verso la cucina, dopo aver evitato un bastone dal diametro dell’anima di un rotolo di Scottex con cui la madre disperata cerca di colpirla all’altezza del cranio.
Dopo la scena epica che nemmeno il miglior Tarantino avrebbe saputo immaginare, qualche genitore mosso da pietà riesce a riaccendere le dieci candeline ancora conficcate al primo piano della torta e, rivolgendosi alla festeggiata piangente, intona il classico “tanti auguri a teee…”.
Ma il coretto, forse condizionato dal clima di terrore che si è venuto a creare dopo il tentato omicidio della pasticcera, sembra più una triste litania in onore della defunta opera dolciaria che un tributo festoso alla piccola Gaia.

Finito il cerimoniale la Ricchetti, fradicia e in preda a una devastante crisi di nervi, inizia a salutare frettolosamente i convenuti scusandosi per il comportamento inqualificabile, indecoroso, indecente e inaccettabile, della signora Elvira.
Dopo una decina di minuti di coda per porgere condoglianze e saluti di commiato, arriva il turno di mia moglie che, durante il canonico doppio bacio alla stronza insopportabile, le sussurra una frase consolatoria accompagnata da un pietoso sguardo di sostegno.
Ormai è fatta, penso, finalmente si va a casa.
Stringo la mano di Ambra senza guardarla in faccia per non rischiare di venire annientato dal suo sguardo alla Hannibal Lecter e mi avvicino al marito il quale, nel frattempo, mi tende la sua con un gran sorriso.
“Ciao Roberto, è stato un piacere conoscerti!”
“Si, certo…anche per me…carissimo, ci vediamo alla prossima!”

A casa, dopo cena, mi sdraio sul divano a godermi il meritato riposo davanti a un Tg locale:
“E ora passiamo alla cronaca: ieri sera, dopo aver prestato servizio a una festa di compleanno, la Signora Elvira Rossolini non ha fatto ritorno a casa. I parenti, preoccupati, ne hanno denunciato la scomparsa…”

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