di Mattia Bragadini
A un certo punto, un bimbo compie sei anni e a settembre inizia ad andare a scuola; il padre lo guarda orgoglioso mentre ancora non si capacita di come quel mucchietto di ossa, capace solo di mangiare, bere e inondare i pannolini con tutto quanto mangiato e bevuto, sia ormai diventato un ometto con zainetto sulla spalla, pronto ad infilarsi in un banco già troppo piccolo per quella generazione. E ogni padre che si rispetti inizia a favoleggiare di un brillante futuro per il proprio erede, un futuro in cui possa esprimere l’indiscutibile talento di cui madre natura ha abbondantemente dotato i geni di famiglia, un futuro in cui il piccolo campione in erba possa realizzare i sogni di gloria del padre, bruscamente interrotti da un figlio inatteso, da un legamento crociato capriccioso, da quel raccomandato del figlio del presidente.
E così, fantasticando del momento in cui il proprio pargolo sarà uno sportivo miliardario, conteso da sponsor e soubrette, conquistando finalmente il giusto riconoscimento della classe innata dell’intera dinastia, il buon padre si prepara a porre la domanda più importante: «Allora, quale sport vorresti fare?». Il bambino, con la cameretta tappezzata con i poster di Antognoni e Bettega, di Beccalossi e Pruzzo, di Baresi e Pulici, in attesa di fare chiarezza sulla sua squadra del cuore, già si immagina involarsi sulla fascia ubriacando gli avversari con le finte di Bruno Conti, oppure staccare imperiosamente di testa e mettere la palla nel sette con una zuccata degna del miglior Altobelli, o ancora lanciarsi in un tackle con la grinta e la decisione di Gentile contro Zico e Maradona. Ma prima che la parola «Calcio» si materializzi sulla sua bocca che già sta prendendo la forma di un sorriso, arriva l’inattesa aggiunta del papà: «Ho un amico che sponsorizza la squadra di baseball. Vuoi provare? Ci parlo io.»
Ora, per un bambino di sei anni già non è facile contraddire un proprio genitore, e negli anni ’80 lo era ancora meno se è per questo, figuriamoci per un bimbo timido e decisamente timoroso di qualsiasi accenno d’ira di mamma e papà.
Mi limitai ad annuire, sperando che l’improvviso spegnimento del sorriso che avevo disegnato sul mio viso solo pochi secondi prima inducesse papà a valutare quel repentino cambiamento d’umore come indice di una mia possibile insoddisfazione. La settimana dopo, quando mi trovai in un negozio di articoli sportivi a scegliere un guantone che andasse bene per le mie manine troppo piccole, mi convinsi definitivamente di aver sopravvalutato le capacità psicanalitiche di mio padre; quando poi risalendo in macchina trovai un borsone con scritto Collecchio Baseball e con dentro una divisa biancazzurra con il numero 65, mi rassegnai ad essere diventato un piccolo giocatore di baseball.
Va detto che se uno nasce a Parma (in particolare durante gli anni d’oro di Germal, Parmalat e World Vision) come minimo è al corrente dell’esistenza di questo sport; se poi vive a Collecchio, dove baseball e softball solo una specie di religione laica, è abbastanza plausibile che abbia un cugino che gioca, un parente che lo segue o, appunto, un amico di famiglia come sponsor. Insomma, sapevo a cosa andavo incontro: non mi era di certo chiarissimo in concetto di infield fly, ma conoscevo bene o male le regole fondamentali del gioco e tutto sommato, se non fosse stato che io avrei voluto giocare a calcio come tutti i miei compagni di classe, non c’era niente di tragico in quello che si sarebbe poi rivelato come uno degli sport più belli che potessi immaginare. Solo una cosa mi spaventava, una domanda, o meglio La Domanda, quella che già nella mia infinitesimale conoscenza del gioco mi tormentava e mi appariva minacciosa in tutta la sua angosciosa portata: «Ma tu lanci o batti?»
Quello che invece avevo sottovalutato erano i piccoli ma significativi vantaggi di essere la mascotte della squadra, quando tutti i miei compagni avevano uno o due anni più di me. È vero che in qualità di più piccolo del gruppo capitava spesso di restare seduto, ad incitare dalla panchina (anzi, dal dugout) quelli che giocavano davvero, ma quando toccava a me era una festa. Perché con la mazza in mano io non ero certo un bombardiere, anzi diciamo che per convincermi a girare la mazza ci voleva una di quelle palle talmente lente e talmente in mezzo al piatto che l’avrei potuta fermare con la mano e poi alzarmela da sola, ma non ero nemmeno un obiettivo facile per i lanciatori avversari: col mio metro e cinque scarsi concedevo un’area dello strike tra petto e ginocchia di circa 30 centimetri. Insomma, girando la mazza solo quando strettamente necessario, rimediavo quantità industriali di basi per ball, poi puntualmente rubavo la seconda base e restavo in attesa delle valide dei miei compagni. In difesa me la cavavo: vista la mia inesistente propensione al protagonismo me ne stavo in seconda base dove tendevano a indirizzare la palla solo i battitori mancini e dove la scarsa gittata dei miei lanci era comunque sufficiente ad assistere il mio compagno in prima base. Fine delle responsabilità.
In questo quadro tutto sommato idilliaco, il problema caso mai nasceva la vigilia di Natale, quando al cospetto di zii, zie, nonne, nonni, prozii e avi vari venivo sottoposto al rituale terzo grado di domande sulla mia vita, con i riflettori di questa specie di Verissimo – speciale bambini accessi sui gossip della mia infanzia: dai rapporti con le maestre a scuola alle presunte fidanzatine boccolose, passando ovviamente per lo sport. E se il nonno, una volta capito in qualche modo che non giocavo a calcio e che non sarei diventato il nuovo Gigi Riva, perdeva qualsiasi interesse nei miei racconti, restava tutt’altro che facile spiegare il gioco del baseball ai miei simpatici e curiosi antenati, tanto che nonostante i miei sforzi e l’ausilio di qualche fotografia in bianco e nero, l’impresa spesso risultava vana. Ma ancora mi ricordo la volta che vidi un lampo di riconoscimento nello sguardo del più giovane dei mie zii: «Ah! Baseball! Ho capito! – disse mentre gli occhi gli si illuminavano – Bravo bravo. Ma dimmi un po’, tu lanci o batti?»
E nonostante l’incomprensione della mia ascendenza, io tenacemente continuavo a costruire la mia “carriera”, spronato da mio padre che altrettanto tenacemente mi accompagnava ogni sabato sui polverosi campetti della provincia per poi abbarbicarsi alla recinzione per fare il tifo con gli altri genitori, il cappellino della squadra calato fin sugli occhi, la voce a scandire cori per il nostro lanciatore quando eravamo in difesa e per il nostro battitore che si presentava al piatto quando toccava a noi attaccare. Non mi ricordo che ci fossero incitamenti particolari nei miei confronti, d’altra parte non era facile scaldare gli animi dei miei “tifosi” a suon di basi per ball, per cui mi limitavo al mio compitino: tenevo la mazza ben dritta, guardavo passare con un certa rassegnazione i pochi strike che il lanciatore avversario riusciva a infilare tra la scritta dello sponsor e le mie ginocchia e aspettavo l’immancabile quarto ball, me ne trotterellavo in prima base, rubavo la seconda e aspettavo; perché alla fine la mia predisposizione ad arrivare sempre e comunque in prima base, in un modo o nell’altro, aveva convinto il mio manager a mettermi lead-off, il primo dell’ordine di battuta, per farmi spingere a casa dai battitori seri. Ma pian pianino, tra un allenamento al chiuso della palestra e uno nel fango di certe giornate primaverili ma piovose, crescevo nella squadra, e crescevo anche in altezza, così che a un certo punto dovetti rassegnarmi a girare ogni tanto la mazza, perché ormai ad aspettare solo di andare in base per ball erano più le volte che finivo eliminato al piatto. E così, tra un singolino ben indirizzato (ah, la potenza, questa sconosciuta!) e una solida e costante prestazione difensiva dalle parti del mio amato cuscino di seconda base, salivo di età e di categoria, iniziando a togliermi le mie prime soddisfazioni. Così un po’ più grandicello potevo cominciare a raccontare di giocare in una squadra importante, certo non di calcio come potevano vantare molti miei coetanei, ma per lo meno per me la prospettiva di giocare in categorie serie come Serie A1 e Serie A2 era una possibilità concreta, non un lontanissimo miraggio come per i miei amici calciatori. E ogni tanto per darmi un tono e per far colpo sulle prime ragazzine buttavo lì un «Sai, io gioco a baseball…» ricevendo immancabilmente come risposta: «Ah! Baseball! Ma tu lanci o batti?»
E così, stagione dopo stagione, anno dopo anno, base per ball dopo base per ball, scivolata in seconda dopo scivolata in seconda, salivo i gradini della scala del baseball italiano: prima l’esordio in A1 con la squadra della mia città, poi lo scudetto e le coppe europee e un bel giorno arrivò la convocazione in Nazionale: Il giorno del debutto, ad Harlem contro l’Olanda, mentre le prime note dell’inno di Mameli mi scioglievano lo stomaco e sentivo le ginocchia cedere, rividi in un lungo flashback quel bimbo troppo piccolo per riuscire a tirargli uno strike, con le mani così minute da non trovare un guantino da battuta della sua misura; un ragazzino che privo di qualsiasi talento, ma forte solo della sua determinazione era diventato un uomo ed era arrivato fino lì.
E infine, a coronare il sogno di ogni sportivo dilettante, arrivarono i Giochi Olimpici: nella mia stanza del villaggio olimpico, a due passi dai fenomeni dell’atletica leggera, dai recordman del nuoto, dai migliori sportivi di tutto il mondo, ripensai a quel momento decisivo, quella piccola esitazione, quella sliding door che aveva trasformato un potenziale calciatore dilettante da seconda categoria come migliaia di altri in un atleta azzurro. Non arrivò nessuna medaglia, ma solo l’idea di essere lì in quel momento, il giro di campo durante la cerimonia di apertura dietro il tricolore, giocare quello che per me ormai era diventato il gioco più bello del mondo rappresentando il mio Paese, furono le più belle soddisfazioni che potessi togliermi su un diamante.
Fuori dal campo da gioco, invece, la soddisfazione più bella me la regalò Sabrina, una giocatrice di softball, naturalmente, conosciuta proprio al villaggio olimpico. Dopo un paio di anni di fidanzamento, un bel giorno di maggio Sabrina mi condusse finalmente all’altare e fu lì, con la mano della mia futura moglie nella mia, con i suoi occhi azzurri sorridenti che si riflettevano nei miei, tra i flash dei fotografi pronti a scolpire quell’attimo nella memoria di tutti, in mezzo ai nostri amici, ai nostri compagni e compagne di squadra, con la fede nuziale tra le dita pronta a raggiungere l’anulare di Sabrina, che il prete mi rivolse finalmente la fatidica domanda che avrebbe cambiato per sempre la mia vita: «Ma tu lanci o batti?»