di Massimiliano Renaud
Da sempre, la famiglia Guatelli abita le mie mura. E lo ricordo bene quel bambino, che guardava i suoi parenti lavorare nei campi mentre lui, debole, magro e sempre ammalato, doveva restare rinchiuso in casa per non finire in sanatorio.
Per questo motivo Ettore era sempre triste, solo ed escluso addirittura dai suoi stessi consanguinei. E il giorno in cui perfino il medico di Ozzano consigliò a suo padre di mandarlo a scuola, piuttosto che nei campi, riempì una vecchia valigia e si trasferì in città.
Una sera del 1942 ritornò qui, per annunciare che si sarebbe arruolato e nel settembre dell’anno successivo, dopo l’armistizio, è ricomparso per dire a tutti che sarebbe diventato un partigiano.
Finita la guerra, Ettore è tornato a occupare la sua vecchia stanza e tra i tanti nuovi amici che si era fatto all’epoca, spesso si incontrava con un intellettuale conosciuto in un ospedale militare il quale, in cambio della battitura a macchina di alcuni manoscritti letterari, aiutò Ettore a conseguire il diploma magistrale.
Se non ricordo male, il suo nome era Attilio Bertolucci.
Poi, per anni, Ettore si allontanò di nuovo dalla terra in cui affondo le mie fondamenta per andare a dirigere colonie appenniniche e ritornò soltanto quando, dopo anni di precariato, ottenne il posto fisso come maestro di scuola. Dalle montagne, però, portò con se un’enorme, o almeno allora mi sembrava tale, quantità di vecchi oggetti raccolti e salvati dalla distruzione, vittime del riammodernamento generale delle campagne che stava prendendo piede in quegli anni.
“Non voglio che questi oggetti vadano persi”, rispondeva a chi chiedeva quale fosse l’utilità di conservare tutto quel ciarpame.
Da quei giorni, per i successivi quarant’anni, non smise mai di appendere oggetti ai miei muri, ai miei soffitti, alle mie finestre. Non smise mai di mettere cose ovunque si trovasse uno spazio, ma nulla, proprio nulla, veniva disposto a caso.
Ogni giorno, tornato da scuola, visitava contadini, collezionisti, robivecchi, rottamai, discariche, rigattieri, e man mano che i componenti della famiglia passavano a miglior vita, migliaia di piccoli attrezzi di vita quotidiana contadina formavano installazioni incredibili e davano il nome alle stanze rimaste vuote. La camera della vecchia zia, ad esempio, diventò la stanza dei vetri, poi nacquero quella delle latte, quella degli orologi, che ospitava chiunque volesse trattenersi qui per una notte, quella dei giochi, delle ceramiche, delle scatole, delle valigie… Poi si riempirono i solai, i saloni, l’aia, il granaio. Tutto venne invaso di ricordi di mille vite disposti “bene”, come diceva Ettore, in modo da stimolare l’attenzione di chi guarda su oggetti di per sé insignificanti, vecchi e di poco valore.
Così, a poco a poco, mi trasformai da casa colonica a museo, che non veniva visitato soltanto dagli alunni del maestro elementare o da qualche curioso che si burlava di quella specie di discarica, ma da decine di persone con accenti diversi provenienti da ogni parte del paese, che rimanevano estasiate davanti alle installazioni del vecchio maestro.
Ettore è morto all’alba del terzo millennio e io me lo immagino ancora, mentre raccoglie in giro per le campagne ognuno dei sessantamila oggetti che ha collezionato ed esposto in così mirabile maniera.
E lo vedo ancora, come allora, ritornare a casa nella nebbia novembrina, scaricare dall’auto i suoi tesori e prendere il suo martelletto per inchiodare lime, martelli, picconi, falcetti e migliaia di altre cose al mio fragile intonaco, facendo cadere a terra qualche briciola che subito spariva spazzata da una scopa.
Il Museo Ettore Guatelli si trova a Ozzano Taro, in provincia di Parma, ed è qualcosa di unico ed estremamente emozionante.
Se volete avere un assaggio di ciò che potrete trovare, potete dare un’occhiata qui…