di Massimiliano Renaud
Immagine di Matteo Mora
Vivevo a Parigi già da qualche mese e la passeggiata serale lungo la Senna era diventata un’irrinunciabile routine. Il percorso era sempre lo stesso, tranne in quella notte in cui l’aria fresca di maggio mi allontanò dall’itinerario quotidiano. Imboccai Rue Saint-Denis e mi persi negli anfratti della Rive Droite, in cerca un po’ di svago e, magari, di un buon bicchiere.
Ricordando di avere già percorso quelle strade, forse in sogno, o forse durante una vacanza con gli amici al tempo dei vent’anni ero sicuro di aver visto, nascosto da qualche parte in quei vicoli, un locale in stile New Orleans con poltroncine in pelle bordeaux, un piccolo palco e tanto fumo di tabacchi vari a creare l’atmosfera ideale per un po’ di nostalgico jazz.
Vagai rimbalzando tra Rue de Rivoli, Rue du Renard e le Centre Pompidou fino a quando, scendendo verso il fiume su Boulevard de Strasbourg, l’occhio non si posò su di un’insegna a forma di mezza luna a fondo grigio, sporcata da una sottile scritta bianca e rossa ornata dal disegno stilizzato di un violoncello.
DUC DES LOMBARDS
Entrai, ed era quasi tutto come lo ricordavo: il piccolo palco ancora vuoto schiacciato in un angolo buio, il soffitto basso per tenere prigioniere le note e un barista sempre indaffarato ma mai in affanno, nell’affogare cubetti di ghiaccio in pregiati distillati.
Però, c’era qualcosa di cui sentivo la mancanza, qualcosa che in un posto come quello era quasi indispensabile: l’aroma dei sigari, lo scintillio delle braci che danzavano fra le luci soffuse e quella calda nebbia artificiale così malinconica e romantica allo stesso tempo, che imperversava prima dell’era dei divieti. .
Sedetti sotto al palco, ordinai un Remy Martin e mi tuffai tra le fotografie dei grandi del passato appese a tutte le pareti: Armstrong, Ellington, Shaw, Miller, la meravigliosa Ella e tutti gli altri.
Assorto fra i volti degli avi del jazz, non mi accorsi che un trio era già sul palco a strimpellare i primi accordi e mentre la melodia cominciava a prender forma, arrivò lei.
Bellissima, nel suo abito da sera dallo spacco infinito, con le palpebre chiuse appena sfiorate da un trucco leggero e le dita affusolate, senza smalto, che sembravano fondersi al microfono che spargeva nell’aria una voce di velluto.
Stregato da quel fiore nero che accompagnava ondeggiando ogni acuto e ogni sussurro, mi persi in un viaggio magico e rimasi lì, incantato, dalla prima nota dalla sua Sophisticated Lady fino alla fine del suo ultimo pezzo, due ore e tre Cognac più tardi.
Scese dal palco leggera ed elegante come una ballerina di Degas, andò quasi fluttuando verso il bar dove un Cosmopolitan attendeva di essere sfiorato dalle sue labbra morbide e si sedette, angelica, donando alla sala uno splendido profilo.
Mi alzai di scatto, forse pensando di raggiungerla, ma non ebbi il coraggio di arrivare all’origine della scia di profumo che riempiva l’aria del locale.
Deviai verso l’uscita e mi ritrovai in strada, con la sigaretta accesa fra le labbra, camminando a testa bassa verso casa prendendo a calci una lattina vuota.