Fenomenologia del gin tonic

di Mattia Bragadini

 

Tommy si guarda intorno. È arrivato alle sette precise ben sapendo che Laura non sarebbe ancora stata lì. Un’altra delle sue piccole manie: è convinto che il giorno in cui si adeguerà ai suoi soliti dieci minuti di ritardo lei invece sarà puntuale, e a quel punto doverle dare delle spiegazioni non gli piacerà per niente. Sorride, ma è un solo attimo. Perché la voce di Laura stamattina al telefono non lasciava presagire nulla di buono e Tommy sa che non è usuale che la sua fidanzata gli dia appuntamento in piazza “per bere una cosa da Lino” dopo il lavoro, rinunciando alla seduta di pilates o all’aperitivo con le amiche.
Controlla ancora il cellulare in cerca di messaggi o chiamate, poi alza gli occhi sulla piazza. Dal solito posto sotto ai portici riesce ad abbracciarla tutta: dal corso frenetico di gente a passeggio davanti alle vetrine colorate di abiti primaverili, fino al teatro illuminato dalla luce ancora calda che annuncia l’estate. La sagoma maestosa del castello che si riflette nelle pozzanghere che l’acquazzone di mezzogiorno ha disseminato sul porfido, e alla sua sinistra la facciata della cattedrale ancora incerottata dalle impalcature, a ricordare le ferite che la terra ha inferto a questa gente. La stessa gente che questa terra tanto ama.
Prova a distogliere lo sguardo e i pensieri, a perdersi negli schiamazzi dei bambini e nelle chiacchiere dei ragazzini a passeggio, ma la mente non fa che tornare a quella telefonata, alla ricerca degli indizi di qualcosa, qualcosa che possa placare le sue ansie e togliergli quella sensazione opprimente che adesso sta crescendo lenta ma inesorabile in fondo allo stomaco. E invece più ci pensa e più si convince che no, il tono di Laura non era affatto del tipo “grandi notizie, festeggiamo”. Tutt’altro. Da un locale vicino arrivano sommesse le note di un pezzo deep house che a Tommy sembrano indicare il suo percorso verso l’abisso. D’un tratto visualizza l’immagine di sé stesso che dissolve al nero, come in un film. The end.

The shallower it grows, the shallower it grows, the fainter we go into the fade out line

Dieci minuti dopo, puntualissima nel suo ritardo, la vede sbucare dalla parte opposta della piazza e avanzare lungo il corso svelta ed elegante, la testa alta, lo sguardo dritto; ha smesso di piovere da un po’ ma Laura indossa ancora il suo trench Burberry che sa starle una meraviglia, e mentre cammina i tacchi delle Louboutin, precisi sui piccoli cubetti di porfido della piazza, sembrano scandire il tempo del suo avvicinarsi. Cassa – rullante – cassa – rullante.
Ora che è più vicina e ne distingue chiaramente i lineamenti, nota il solito trucco leggero: un velo di fondotinta, gli occhi scuri e profondi sottolineati da un leggero tratto di eyeliner, le labbra appena illuminate di un rosa tenue, i capelli biondi lasciati sciolti sulle spalle con studiata nonchalance.
Un rapido bacio di Laura sulla guancia, una rapida stretta allo stomaco di Tommy.

«Entriamo?»
«Entriamo.»

Come sempre all’ora dell’aperitivo il locale di Lino è stracolmo di gente. Uomini in completo da amministratore delegato appena sfornati dagli uffici del vicino centro direzionale, giovani segretarie in carriera in tailleur e décolleté che esibiscono trionfanti l’ultima Vuitton regalata dal fidanzato, dal marito, dall’amante, dal padre, dal capo. Chissà.
Si avventano sul buffet come profughi dopo settimane di stenti, iPhone all’orecchio, iPad in una mano, spritz nell’altra. Tommy riconosce due colleghi che saluta con un vago cenno della mano, mentre il suo “Ciao” è coperto dall’ultimo remix di David Guetta sparato a palla dai diffusori. Troppa gente, troppa confusione, troppo caldo. Tommy urla qualcosa nell’orecchio di Laura cercando di sovrastare la voce di Sam Martin e la riporta fuori, dribblando la gente che si accalca a fare scorta di prosecco e tartine al salmone. All’esterno del locale trovano finalmente un tavolino, in un angolo un po’ appartato lontano dai rumori e si siedono. Come Tommy immaginava, Laura non si toglie nemmeno il soprabito, nonostante il tepore di fine maggio, tralascia i convenevoli e va dritta al punto:
«Posso farti una domanda?»
«Bella o brutta?»
«Ma che vuol dire? È solo una domanda!»
«Se fosse solo una domanda non mi avresti chiesto se potevi farmela, significa che è una domanda particolare. Bella o brutta?»
«Tu sei malato!»
«Forse. Ma dimmi che non è così.»
«Ok, hai ragione, è una brutta domanda.»
«Allora non farla.»
«Ma come?»
«Mi hai chiesto se potevi farmi una domanda e la risposta è no.»
«Ma era una domanda retorica.»
«No, hai appena detto che è una domanda brutta, non retorica. E quindi non voglio sentirla. Cosa prendi da bere?»
«Cosa faresti se ti chiedessi di non vederci per un po’?»
«Non si risponde a una domanda con un’altra domanda. Cosa vuoi da bere?»
«Tommy, ascolta. Sto cercando di essere seria qui.»
«E io sto cercando di ordinare e soprattutto di non sentire domande che ho chiesto non mi fossero poste. Due gin tonic, per piacere.»
«Non ho mai bevuto gin tonic in vita mia!»
«Infatti sono tutti e due per me.»
«Tommy!»
«Comunque hai ragione: io non dovrei stare con una ragazza che non beve gin tonic.»
«Allora parliamone, dai.»
«Che poi dipende sempre dal gin che usi.»
«Dico sul serio: prendiamoci una pausa di riflessione.»
«Chiaro che la tonica tende un po’ all’aspro.»
«Solo per un po’, per stare un po’ da soli e fare le nostre cose.»
«Se la mischi con della robaccia non ti resta in bocca che l’aspro.»
«Per capire se siamo veramente noi quello che vogliamo.»
«Ci vuole il Bombay, morbido e rotondo con quel tocco di cannella.»
«Non è per sempre, voglio solo che ci prendiamo un po’ di tempo per noi.»
«O al limite il Beefeater col suo aroma floreale.»
«Ognuno si ritaglia un po’ di spazio per sé stesso.»
«Dovresti provare un gin tonic fatto bene.»
«TOMMY! Tu non mi stai a sentire!»
«No! Sei tu che non rispondi alle mie domande! Ti ho chiesto cosa vuoi da bere.»
«Ok proviamo questo gin tonic. Chiama la cameriera.»
«Non serve, prendi uno dei miei.»

Di colpo Laura si accascia sfinita sulla sedia e Tommy si ritrova a pensare che potrebbe tranquillamente risparmiare i soldi delle lezioni di pilates: basterebbe una chiacchierata con lui ogni giorno come esercizio fisico. Gli scappa un mezzo sorriso e Laura lo studia incuriosita, poi finalmente si toglie il trench e lascia cadere la testa sul palmo della mano, il gomito appoggiato al tavolino, come svuotata da quella conversazione. Negli occhi una parte di frustrazione e due di rassegnazione, ma Tommy può vedere che il ghiaccio si è già sciolto: quegli occhi non sono più duri come cinque minuti fa e la sua mascella prima serrata ora si è aperta nella solita curva morbida del viso.
Tommy allora allarga ulteriormente il suo sorriso e porge uno dei due bicchieri a Laura mentre solleva il suo per un brindisi, restando in attesa della sua mossa. Allora anche lei rialza la testa dalla mano e con un unico movimento perfetto se la passa tra i capelli riavviandoli, mentre raddrizza la schiena sulla sedia accavallando le gambe, e in un istante si riappropria di tutta la sua meravigliosa femminilità. Prende poi il bicchiere che Tommy le ha porto e guardandolo fisso con gli occhi ora scintillanti brinda con lui.
Come calmata dal drink, Laura si piega leggermente in avanti sul tavolo e lo inizia a guardare dal basso verso l’alto, morbida e sensuale. Ora il suo viso è così vicino a quello di Tommy che lui può sentire distintamente la nota di vaniglia del suo Hypnotic Poison salirgli al cervello fino quasi a stordirlo. Poi, dopo un’altra lunga sorsata di gin tonic, è Laura che parla per prima:
«Vedi, a volte con te ho l’impressione di essere in uno di quegli autogrill costruiti a ponte, quelli con l’autostrada che passa sotto. È come se noi arrivassimo da posti lontani e volessimo andare in posti bellissimi. Ma io sta andando a sud e tu a nord.»
«Cosa vuoi dire?»
«Che possiamo trovarci a prendere un caffè insieme al bar dell’autogrill, bere una birra, un… gin tonic! Ma poi i nostri viaggi vanno in direzioni opposte, ci sono momenti in cui mi sembra che io sia solo ferma ad aspettarti, e non sono convinta che sia la cosa giusta da fare perché io non voglio vivere per sempre nel bar di un autogrill. Momenti in cui mi sento come se fossimo qua in questa piazza, ma tu sei là all’inizio del corso e io da questa parte davanti al duomo. Siamo nello stesso posto. Ma siamo nello stesso posto
«Ma che importanza ha in quale punto della piazza ci troviamo? Tutto contribuisce a far sì che questo posto esista: i palazzi, i negozi, questi tavolini e ogni cubetto di porfido, dal primo all’ultimo. È l’insieme che lo rende unico, non capisci? È come quello che siamo diventati noi, cubetto dopo cubetto. Vedi? Lì sotto ai portici c’è la gelateria dove ci siamo conosciuti e dietro l’angolo l’agenzia viaggi dove abbiamo prenotato la nostra prima vacanza insieme. E poi il teatro. Ti ricordi quella sera che siamo scappati via dopo il primo atto della Traviataperché ti era venuta voglia di pizza? E lì, proprio lì, quello è il punto dove ti sei rotta un tacco dopo la cena nel cortile del castello. E hai camminato scalza fino alla macchina, felice e ubriaca. Ogni angolo di questa piazza parla di noi, non importa in quale metro quadro ci troviamo in questo momento. E quella…»
Tommy fa un pausa, indicando con un gesto vago la sua sinistra. Laura segue il gesto con lo sguardo. Poi Tommy riprende:
«Quando toglieranno le impalcature, quella sarà la chiesa dove ti sposerò.»
Laura rimane qualche secondo interdetta, come a contemplare le parole di Tommy per soppesarne la serietà. Poi scoppia in un’improvvisa risata.
«Ma io non lo so! Ma come fai? Io sono venuta qua per…»
«Per?»
«Non lo so più neanch’io. È che io mi ci metto d’impegno per fare chiarezza dentro me stessa, a riflettere e a giungere a qualche conclusione. Ma poi tu cominci a parlare, a parlare, a parlare, e mi travolgi con le parole, e mi fai ridere, e mi fai dannare, e mi fai commuovere, e mi fai incazzare, e mi fai divertire, e mi fai sospirare. E sembra che tu abbia il manuale per smontare pezzo dopo pezzo tutti i miei dubbi, tutti i miei interrogativi. E con quel manuale riesci anche a smontare tutte le decisioni che faticosamente cerco di prendere.»
«Ma io ce l’ho davvero quel manuale, era compreso nel pacco quando ti ho comprata.»
«E non mi prendi mai sul serio. E non ti prendi mai sul serio.»
«”La vita è una cosa troppo seria perché si possa parlarne sul serio”. Chi l’ha detto?»
«Oscar Wilde?»
«That’s my girl!»
Laura sorride poi scuote la testa mentre le passano davanti agli occhi scene di film e nelle orecchie parole di canzoni, che le sembrano parlare di loro.
«E quindi è di questo che si tratta, Tommy?»
«Questo cosa?»
«Questo: prendersi a calci e pugni, rendersi insopportabili l’uno all’altra, guardarsi in cagnesco e poi sciogliersi come ghiaccio. Sciogliersi in un bacio, in un abbraccio, in uno sguardo, in un sorriso.»
«Sì, penso di sì. D’altra parte non siamo forse così, noi? Tanti graffi e pochi Baci Perugina, perché per noi quelle frasi ad alto contenuto glicemico, quelle parole convenzionali ripetute decine di volte diventano suoni di sottofondo, privi di ogni complicità, fino a svuotarsi di qualsiasi significato, di ogni poesia.»
«Cosa vuoi dire?»
«“Ti voglio bene”, “Sto bene con te”, “Mi manchi”. Non sono il nostro pane. “Ho bisogno di te”, forse. Ecco, questo sì che è romantico! Anche se…  pensaci bene: “Ho bisogno di te”. Ho bisogno di te come di un martello per piantare un chiodo? Ho bisogno di te come di un cucchiaio per mangiare la Nutella? Questo tipo di bisogno non ha nulla di poetico. Piuttosto, “ho bisogno di te come dell’aria che respiro”. Ah sì! Ora ci siamo! E però riflettici: cosa c’è di così romantico nell’aria? È solo il mezzo che ci serve per restare vivi, respirare: ossigeno, funzioni primarie. “Ho bisogno di te come della pressione arteriosa” non suona altrettanto romantico, eppure il significato è lo stesso.»
Laura lo fissa sbalordita: «Tu riusciresti a convincere una tigre a togliersi le strisce, vero?»
«Questa è già stata detta.»
«Sì, be’. Io non te l’avevo mai detto.»
«Anche questo è vero. Ma lo devo prendere come un complimento?»
«Non lo so, Tommy, non lo so. Quello che so è che in tutto questo, tra risate e calci in faccia, tra citazioni colte e battutacce da bar, tu mi fai sentire viva.»
«Com’è il gin tonic?»
«È squisito.»
«Dai, andiamo a casa.»

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